“Life on Mart”, un viaggio dentro uno dei più importanti musei di arte contemporanea in Italia trasmesso ad Art Night su Rai 5, è l’ultimo tassello creativo della regista trentina Katia Bernardi. Un lavoro con il quale è tornata a raccontare il suo territorio dopo averlo fatto in pellicole come “Sloi, la Fabbrica degli Invisibili”, “Gli Uomini della Luce” e “Arte Sella”. Nel percorso della regista laureata al Dams anche “Funne. Le ragazze che sognavano il mare”, opera che ha ottenuto una grande visibilità così come i suoi documentari che hanno partecipato a molti festival nazionali e internazionali e sono stati trasmessi in diversi canali televisivi. In questa intervista Katia Bernardi racconta le radici della sua passione per il cinema, il suo privato che è anche il ricordo del padre, il noto artista Sergio Bernardi e un futuro che si lega alla scrittrice Susanna Tamaro.
Katia, iniziamo dalle origini: da dove nasce la tua passione per il cinema?
Sono stata molto fortunata perché sono cresciuta in una famiglia ricca di stimoli creativi. Dal teatro alla musica, dall’arte alla letteratura. Ho sempre avuto un grande interesse per le arti in generale, poi all’università, il Dams a Bologna, ormai nei lontani anni ‘90, ho scoperto il cinema ed è stato amore a prima vista. Il cinema è in fondo l’unione armonica di tante arti insieme. Fin da piccola sono stata (e sono tutt’ora) una divoratrice di film. Con mio padre già negli anni ‘80 collezionavamo videocassette ed a casa avevamo una sorta di videoteca con tanto di indice.
Quali sono allora i film e i telefilm che hanno segnato il tuo immaginario da bambina e ragazzina?
Da bambina, ma rimane un cult anche da adulta, sicuramente c’è il film Il mago di Oz, con Judy Garland, che ha veramente segnato un mio immaginario e i classici film per ragazzi degli anni ‘80 come Labyrinth, i Goonies, La storia infinita, La fabbrica di cioccolato, ET… poi da ragazzina ricordo alle superiori una grande passione per la serie di Lynch, Twin Peak’s.
Ma quando hai capito che poteva segnare la tua vita?
Non c’è stato un vero e proprio momento in cui mi è arrivata questa consapevolezza o mi sono detta: da grande voglio fare questo. Avevo dei compagni universitari già convinti e determinati a fare questo mestiere che poi invece nella vita hanno fatto altro. Per me è stato un percorso molto lento di studio teorico, poi di pratica in diversi ambiti di questo settore, dai primi lavori a Roma in ambito pubblicitario, poi a Milano in quello televisivo fino ad arrivare al documentario.
Una strada che continui a percorrere con passione.
Il mio è tuttora un viaggio di continua scoperta e voglia di misurarmi con sfide e racconti sempre diversi e ricerca di linguaggio e di contaminazioni. Ci sono state però delle tappe fondamentali, oltre all’amore smisurato che continua ancora anche oggi per il cinema. Il mio primo incarico come regista di una serie di arte contemporanea, che mi è stato commissionato dal dirigente delle attività culturali di Bolzano, Antonio Lampis, poi la scrittura e la regia del documentario storico sociale Sloi e il film le Funne, dove penso di aver trovato la mia cifra espressiva.
Tuo padre era artista e pittore, quanto ha influito la sua presenza e in generale il tuo ambiente famigliare sulle tue passioni?
Come ho detto la figura principale che ha condizionato la mia strada e con la quale ho condiviso tutta le mie scelte e la mia vita professionale è stata quella di mio padre. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, veramente ricca di stimoli creativi. Mio padre mi ha educata e cresciuta libera di esprimermi, mi ha sostenuta nel mio percorso, non facile, ed è sempre stato il primo lettore dei mie progetti e spettatore dei miei documentari. La sua passione, il suo amore per la vita e per le arti, la determinazione, fatta di tanto lavoro e studio, nel cercare nella vita la propria direzione e la realizzazione dei propri sogni sono state la stella polare. Condividendo in pieno questi valori ed ideali sto tentando di crescere mia figlia Caterina di 9 anni seguendo la medesima direzione.
Tu sei appassionata anche di favole: come hai scelto di esplorare questo mondo magico fatto di parole e visioni per i più piccini e non solo?
Io non ho mai scritto vere e proprie favole per i più piccoli, se non un progetto inedito con mia figlia Caterina, durante la quarantena, nel quale abbiamo scritto dodici filastrocche, due favole e un haiku, per elaborare creativamente – ci sono anche i suoi disegni – il tempo della pandemia. Lo scambio, il dialogo e il gioco con lei è sicuramente per me nutrimento ed esplorazione del suo mondo magico e dell’infanzia. Sono attratta drammaturgicamente dalla struttura delle favole e a livello cinematografico delle favole contemporanee, che spesso si avvicinano al genere della commedia, soprattutto inglese. Probabilmente il genere che più mi è aderente è proprio quello della favola contemporanea, per questo motivo ho scritto e realizzato “Funne” e vorrei continuare in questa direzione.
Torniamo alla regia: la tua prima pellicola di rilievo, era il 2009, è “Sloi: la fabbrica degli invisibili”.
La mia formazione ed i miei lavori hanno visto temi e tempi diversi ma in realtà seguono dei filoni ben precisi. Dopo gli studi universitari e la gavetta a Roma in ambito pubblicitario ho lavorato per due anni a Milano in ambito televisivo, la mia formazione è quindi mista e subisce le diverse influenze di linguaggi che ho sperimentato nel corso degli anni. Verso la fine degli anni 2000 ho poi iniziato a scrivere e dirigere documentari.
Un filone appunto mi pare essere quello storico – sociale.
Sì, e ne fanno parte Sloi, la fabbrica degli invisibili, Gli uomini della luce, sulla costruzione dei grandi impianti idroelettrici e recentemente ho realizzato il documentario presentato al Trento film festival, Oro Rosso, dedicato alle cave di porfido. Ci sono poi diversi lavori dedicati alla Resistenza, tre cui uno dedicato alla figura di Angelo Bettini, che verrà presentato il prossimo 28 giugno. Un altro filone invece è dedicato all’arte, con tre serie televisive sui grandi maestri dell’arte contemporanea, il documentario su Arte Sella, fino al recente documentario sul Mart di Rovereto. In queste settimane stiamo invece iniziando a lavorare su un documentario in collaborazione con il festival di Oriente Occidente e la compagnia Balletto civile.
Poi c’è il tuo sguardo dietro la cinepresa verso l’universo femminile.
Parallelamente a questi due filoni si muove però da anni la mia personale ricerca di soggetti e storie con al centro personaggi femminili come Sidelki, un documentario sulle badanti ucraine di diversi anni fa, Funne, Sogni in grande, un documentario per la tv, dedicato a come stanno cambiando i sogni delle bambine nella fascia delle elementari ed ora il mio prossimo lavoro sulla scrittrice Susanna Tamaro.
Di quest’anno è invece il documentario “Life on Mart”.
Nonostante la difficoltà di girare durante la pandemia, sono rimasta affascinata nello scoprire dall’interno la struttura del Mart, conoscendo sia le persone che ci lavorano che esplorando più in profondità i diversi settori. Non immaginavo la vastità e ricchezza del loro archivio, le proposte originali e stimolanti per i più piccoli per la didattica, i segreti dei depositi e gli stimoli creativi dell’architetto Botta nell’idearne la struttura.
Qual è l’obiettivo che ti poni quando sei dietro la cinepresa, intendo in quale modo vuoi arrivare allo spettatore?
Penso che la dote e la difficoltà maggiore per un regista di documentario sia quella di riuscire a creare empatia con i protagonisti della storia. Quello che ho cercato di fare nel mio lavoro è proprio questo ed è quello che forse più mi interessa, tentare di portare sullo schermo le esperienze, le emozioni che vivono i protagonisti della mia storia. Cerco momenti di verità da tradurre senza filtri, mi piace far ridere e piangere, portare lo spettatore dentro il loro mondo, il loro sogno, e farli entrare in profondità, in empatia con loro. Con Funne poi la mia direzione è sempre più rivolta verso la ricerca della leggerezza, in senso calviniano.
L’aspetto più difficile del tuo lavoro di regista?
Quelli più complessi, oltre quelli creativi perché il nostro è un lavoro matto, che chiede, spinge, ti pone continui interrogativi e scelte, decisioni e soluzioni creative veloci, sono di ordine produttivo ed economico. Il settore non è facile, riuscire a trovare finanziamenti per realizzare il proprio film, trovare la squadra giusta con cui lavorare e credere fino in fondo al progetto che si sta realizzando perché spesso gli intoppi e i problemi sono molti e la gestazione di un film dura anni. Problema non da poco è poi la gestione e organizzazione del mio lavoro con una bimba piccola, un lavoro che non ha orari e sabati o domeniche, ma Caterina mi segue ovunque e credo che queste esperienze saranno formative per la sua vita.
La soddisfazione maggiore che hai ottenuto?
Sicuramente scrivere e dirigere Funne mi ha gratificata, anche la straordinaria possibilità di misurarmi con la scrittura di un romanzo, che mai avrei pensato nella vita. Sapere che questo piccolo film, ambientato in un piccolo paesino del Trentino ha fatto il giro del mondo e questa storia è stata vista ed apprezzata dal Sud Corea all’Australia, dall’America alla Spagna, mi ha dato molta forza e fatto capire che forse ho trovato la mia strada espressiva. Per questo sto sviluppando un’altra favola contemporanea in stile british.
La cosa che ti ha fatto più male, o la delusione maggiore dal punto di vista lavorativo?
Come tanti ho preso diverse batoste e delusioni, quelle più grandi derivano proprio dal crearsi un’aspettativa rispetto ad una storia o a un film che si vuole realizzare, con il quale poi nasce un legame quasi sentimentale, in cui si crede molto e poi questa aspettativa viene disillusa, spesso per leggi di mercato o perché il sistema è saturo o molto competitivo.
Oltre un anno ormai di emergenza pandemica: come lo hai vissuto e lo stai vivendo?
Come per molti, è stato uno degli anni più duri della mia vita perché purtroppo, non a causa del covid, lo scorso anno ho perso la persona più importante, insieme a mia figlia, della mia vita, mio padre. Ho molte care amiche che purtroppo stanno vivendo la stessa perdita e sofferenza a causa del covid. È da poco caduto il primo anniversario della sua scomparsa e per questo abbiamo organizzato, insieme ad alcuni membri del gruppo culturale Uct e alla collaborazione con il Museo Storico di Trento, un momento a lui dedicato con l’uscita dell’ultimo libro che stava realizzando, intitolato Il mio sessantotto, edito dal Museo Storico.
La pandemia inoltre ha messo in difficoltà anche il nostro settore, con sale chiuse, teatri, festival, produzioni. Fortunatamente ho potuto almeno continuare a lavorare anche chiusa in casa grazie alla scrittura, un luogo dove scaricarmi e ricaricarmi di energia e vivere nella nostra regione in mezzo alla natura è stato fondamentale per il benessere psicofisico.
Tuo padre Sergio era stato anche l’ideatore del premio “Il Trentino dell’anno”.
Sì, e appena i tempi lo permetteranno organizzeremo una nuova edizione del premio e ci terrei molto a valorizzare oltre l’enorme archivio costruito in 40 anni di storia dal Gruppo culturale UCT, l’enorme produzione artistica di mio padre.
Quali sono i tuoi hobby?
Sicuramente quello che mi è mancato di più in questo periodo, come per tanti, è stato poter viaggiare, naturale nutrimento anche per avere stimoli, per cercare ed inventare storie e conoscere persone, possibili personaggi. Ma condivido con mia figlia Caterina e il mio compagno Davide altre passioni: la natura, gli animali e la cucina. Nel periodo di quarantena abbiamo approfittato come molti per imparare a cucinare di tutto, per questo devo mettermi seriamente a dieta…
Domanda secca: i quattro film per cui vale la pena vivere?
Me ne servirebbero almeno 40.
Allora dimmi un regista, un’attrice e un attore per te imprescindibili.
Direi Scorsese, Coppola, Billy Wilder, Spielberg, Baz Luhrmann, Woody Allen, Tarantino, Hitchcock, Truffaut, Lynch, Melies, Monicelli. Un capitolo a parte riguarda le donne, purtroppo siamo una minoranza per usare un eufemismo. Un nome d’obbligo è quello della grande Lina Wertmuller.
Nel tuo orizzonte c’è anche la nota scrittrice Susanna Tamaro.
Nel prossimo futuro c’è il grande desiderio di realizzare una nuova favola contemporanea che sto scrivendo da alcuni mesi, ma anche di continuare a portare avanti i lavori dedicati al mondo dell’arte, cercando sempre di misurami nella ricerca della contaminazione di linguaggi diversi. Dopo un paio di anni di lavoro, ho da poco terminato un film documentario con al centro Susanna Tamaro, una delle scrittrici italiane più vendute al mondo, personaggio sorprendente al di fuori degli schemi. Titolo del film: “Inedita”.
Domande fisse |
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Il libro che stai leggendo? “Geologia di un padre” di Magrelli, “Figure” di Riccardo Falcinelli e una biografia sul Dalai Lama. Ne leggo diversi insieme a seconda dell’umore serale. Il numero preferito? Il 5. Il colore preferito? Giallo e ottanio. Il piatto che ami di più? Ho una pericolosa passione per i croissant. Come portata, i tortelli di zucca, vitello tonnato, il tiramisù. La squadra di calcio? Juventus. Il viaggio che non sei ancora riuscita a fare? Vorrei esplorare l’Oriente, lo sogno da anni. Hai animali domestici? Cane, gatto, tartarughe e ne vorrei molti altri… Cantante, compositore o gruppo preferito? Da Billie Holiday alla musica anni ‘80, passando per Mozart e Mina. Se non avessi fatto quello che hai fatto, cosa avresti voluto fare? La psicologa, anche se da piccola sognavo di diventare direttrice d’orchestra. La cosa che ti fa più paura? Sono diverse. Compilare moduli, i distributori di benzina e i menu al ristorante se ho poco tempo per decidere. |