
Fin da subito, dall’habemus papam di quel 13 marzo del 2013, si potè intuire di che stoffa era fatto, che il nuovo pontefice sarebbe stato diverso. Bastò udire il nome scelto, Francesco, perché in piazza San Pietro si levasse un’onda di commozione e speranza. Un nome che nessuno dei suoi predecessori aveva mai osato assumere: il nome del poverello di Assisi, di chi s’era spogliato dei beni terreni, di chi rifiutava le armi, di chi professava fratello sole e sorella luna. In quel nome erano già impresse le strade che il papato avrebbe percorso. Un papato che avrebbe cercato di riformare la Chiesa non dall’alto, ma dal basso, partendo dagli ultimi. Un papato che avrebbe ripudiato le guerre, promosso l’armonia con l’ambiente, ricucito le ferite del mondo contemporaneo.
Fin dal primo gesto, fece capire che quella scelta non era solo simbolica. Appena lasciata la Cappella Sistina dopo l’elezione, non salì su un’auto di lusso ma prese l’autobus insieme agli altri cardinali. Una decisione semplice, ma dal potente valore evocativo: il nuovo Papa avrebbe vissuto in sobrietà, vicino al popolo, evitando ogni ostentazione. Già da arcivescovo di Buenos Aires, usava i mezzi pubblici, viveva in un piccolo appartamento, cucinava da solo. “Se uno vuole essere pastore, deve odorare di pecora”, avrebbe detto più avanti, sintetizzando in modo fulminante il suo stile.
Il suo magistero ha lasciato tracce profonde. Ha scritto l’enciclica “Laudato si’”, ispirata proprio al Cantico delle creature di San Francesco, un testo dirompente che propone un’ecologia integrale e lega la crisi ambientale a quella sociale. Ha parlato senza filtri ai giovani delle periferie, come a Scampia, dicendo che “la corruzione spuzza”, e lo ha fatto guardando negli occhi i ragazzi, chiamandoli “i poeti della speranza”. Ha denunciato la cultura dello scarto, l’indifferenza globale, le diseguaglianze sistemiche. “Questa economia uccide”, ha affermato senza mezzi termini, chiedendo un nuovo modello che metta l’essere umano al centro e non il profitto. È stato il primo a descrivere il nostro tempo come una “terza guerra mondiale a pezzi”, leggendo le lacerazioni globali non come episodi isolati, ma come espressione di un’unica crisi morale. E non ha mai dimenticato la forza delle piccole cose: “Anche una palla fatta di stracci può portare gioia”, disse ricordando i giochi dei bambini poveri, poiché la felicità non dipende dal possesso, ma dalla dignità.
È stato un uomo tra gli uomini, pontefice capace di mescolare fede e vita quotidiana, spiritualità e concretezza. Ma è stato anche il Francesco riformatore, e in questo campo ha suscitato speranze e anche delusioni. Ha compiuto gesti coraggiosi nella lotta contro gli abusi, come l’abolizione del segreto pontificio nei casi di pedofilia. Tuttavia, ha dovuto faticare per imprimere una svolta decisa verso una Chiesa più aperta ai laici e alle donne, lasciando incompiute alcune delle riforme più urgenti e attese. “Il clericalismo è una perversione della Chiesa”, ha detto più volte, ma il peso delle resistenze interne ha rallentato il cammino.
E se qualcosa rimane, oltre le scelte e le omissioni, è la chiarezza dello sguardo. Francesco ha saputo nominare il male con coraggio: ha indicato vittime e carnefici, ha denunciato l’ipocrisia del potere, ha preso posizione nei conflitti senza ambiguità. “Non si può essere neutrali davanti al dolore” e il suo pontificato ne è stato testimonianza. La sua parola, pur dolce nei toni, ha spesso colpito come una pietra. E ha aperto varchi.
Francesco non ha voluto essere il papa delle certezze, ma della prossimità. Non ha imposto dottrine, ha offerto vicinanza. E oggi, in un’epoca di cinismo e sfiducia, il suo messaggio resta lì, limpido: vivere con meno, vivere con gli altri, vivere con verità.
“Pregate per me”, diceva sempre alla fine di ogni incontro. Una richiesta che non suona mai come un rituale, ma come un gesto di reciproco affidamento. Anche in questo, Francesco ha rovesciato la logica del potere: ha chiesto aiuto, come farebbe un uomo. E lo ha fatto da papa.
Andarsene il giorno dopo la Resurrezione non è fuggire: è restare con un’altra forma. Non è un addio, è un modo nuovo di esserci. Perché c’è chi regna da un trono e chi resta con una carezza. Francesco ha scelto la seconda via. E direi che ha lasciato il segno.