
C’è qualcosa di profondamente inquietante nei numeri che emergono dall’ultimo rapporto del Censis sul 2024, intitolato “Sindrome Italiana”. L’analisi descrive un Paese intrappolato in una continuità nella medietà, una stagnazione che impedisce sia il tracollo nelle fasi di crisi sia il rilancio nei cicli positivi. Un equilibrio statico che, tuttavia, nasconde un’insidia pericolosa: lo sfibrarsi del ceto medio, i cui redditi sono diminuiti del 7% rispetto a vent’anni fa, sta fermentando un sentimento di disillusione verso le democrazie liberali, l’europeismo e l’atlantismo. Il 66% degli italiani incolpa l’Occidente dei conflitti in corso e solo il 31% sostiene l’aumento delle spese militari richiesto dalla NATO.
Questo malessere sociale si inserisce in un panorama culturale desolante. In Italia, l’ignoranza non è solo una mancanza di nozioni, ma un vuoto di pensiero critico e di consapevolezza storica. I dati forniti dal Censis sono impietosi: il 19% degli italiani crede che Giuseppe Mazzini sia stato un politico della Prima Repubblica e il 32% attribuisce gli affreschi della Cappella Sistina a Giotto o Leonardo da Vinci, ignorando l’opera di Michelangelo. Queste non sono semplici sviste: sono la prova di una cultura che ha smarrito le sue radici.
Ma le sorprese non finiscono qui. Il 22,9% degli italiani non sa che Richard Nixon è stato presidente degli Stati Uniti. Fin qui, si potrebbe pensare a una semplice lacuna storica, ma ciò che colpisce è che il 2,6% lo scambia per un famoso calciatore inglese. È come se la cultura pop avesse inghiottito la memoria storica, trasformando uno degli uomini più controversi del XX secolo in una figura da stadio.
E la confusione si fa ancora più surreale quando si parla di Mao Zedong: il 15,3% non sa chi sia stato il leader della Rivoluzione Cinese, ma il colmo è che l’1,9% lo scambia per l’uomo più anziano del mondo. Una distorsione temporale che sembra uscita da un romanzo di fantascienza, ma che racconta molto di più su come la cultura di massa manipoli i ricordi storici.
È un fatto inquietante, quasi surreale, che oltre la metà degli italiani – precisamente il 55,2% – non sappia o risponda erroneamente alla domanda su quando Benito Mussolini fu destituito e arrestato. Non nel vortice confuso degli eventi del dopoguerra, non in un’epoca lontana e dimenticata, ma in quel cruciale 1943 che segnò la fine di un’era. Più sconcertante ancora è che, tra i giovani, questa percentuale salga al 55,1%, suggerendo un’oblio che sembra crescere con il passare delle generazioni. E che dire del 30,3% degli intervistati che non sa identificare correttamente Giuseppe Mazzini – l’apostolo dell’unità nazionale, l’uomo il cui pensiero ha plasmato l’identità politica italiana? Ancora più allarmante è che per quasi un quinto degli italiani (il 19,3%) Mazzini sia stato semplicemente un politico della Prima Repubblica, una figura indistinta tra le nebbie del passato recente.
Se non sorprende che il 30,3% non conosca l’anno dell’Unità d’Italia – una data che, sebbene fondativa, sembra sbiadire nei ricordi scolastici – colpisce che il 28,8% ignori quando è entrata in vigore la Costituzione. La Costituzione, quel testo sacro che definisce i diritti e i doveri di ogni cittadino, che traccia i confini della democrazia e del vivere civile.
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Ma l’oblio non risparmia nemmeno i grandi della letteratura. È quasi poetico, in un modo tragico e crudele, che il 41,1% degli italiani attribuisca a Gabriele D’Annunzio la paternità de L’infinito, quasi a voler mischiare i versi ribelli del Vate con l’intima contemplazione leopardiana. E non meno assurdo è che il 35,1% pensi a Eugenio Montale come a un presidente del Consiglio degli anni ’50, annullando con un colpo di spugna la sua poetica dell’ermetismo e delle “occasioni”. Per non parlare del 18,4% che potrebbe tranquillamente immaginare Giovanni Pascoli come l’autore de I Promessi Sposi, o del 6,1% che dubita del fatto che Dante Alighieri sia l’autore della Divina Commedia.
Sul fronte dell’arte, il 35,9% cade nell’errore di attribuire l’Inno di Mameli a Giuseppe Verdi, confondendo il genio operistico con il fervore risorgimentale di un giovane poeta-patriota. Ancora più sorprendente è che il 32,4% pensi che la Cappella Sistina sia stata affrescata da Giotto o Leonardo da Vinci, ignorando l’impronta titanica di Michelangelo, quell’uomo solo e tormentato che sfidò il cielo a dipingere la Creazione.
Eppure l’ignoranza non si limita alla storia o alla cultura. Si estende alla geografia: il 23,8% non sa che Oslo è la capitale della Norvegia, e il 29,5% non colloca Potenza come capoluogo della Basilicata, come se la mappa stessa della loro nazione fosse sfocata, indistinta.
Nemmeno l’aritmetica elementare viene risparmiata: per il 12,9% degli italiani, sette per otto non fa necessariamente cinquantasei. Una perdita di certezze che sembra contagiare anche la conoscenza dei meccanismi istituzionali, visto che il 53,4% non sa a chi attribuire correttamente il potere.
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È una crisi dell’identità culturale, un naufragio della memoria collettiva. Un Paese che dimentica i suoi poeti, i suoi artisti, i suoi statisti, è un Paese che rischia di dimenticare sé stesso.
Questo non sapere significa non ricordare. E non ricordare significa vivere in un presente senza profondità, senza radici. Una società che non sa da dove viene, non sa nemmeno dove sta andando. Non è solo questione di date o nomi sbagliati; è l’assenza di un contesto, di un senso critico, di una continuità culturale. Ignorare la storia equivale a smarrire la propria identità collettiva, lasciando campo libero alla manipolazione delle idee.
Il vuoto culturale, infatti, non rimane mai tale: viene riempito da pregiudizi, stereotipi e falsi miti. Se più di un quarto degli italiani (il 26,1%) crede che nel Paese ci siano 10 milioni di immigrati clandestini, non è solo un problema di aritmetica. È un’incapacità di comprendere la realtà, un’incertezza che diventa paura e odio. Quando il 20,9% è convinto che tramite la finanza gli ebrei dominino il mondo, non è solo ignoranza storica, ma un ritorno di vecchi fantasmi mai davvero esorcizzati.
È così che l’ignoranza diventa pericolosa: non come semplice mancanza di nozioni, ma come terreno fertile per il pensiero irrazionale. Il non sapere si trasforma in credere qualsiasi cosa, dalle teorie complottiste alla diffidenza verso la scienza. L’ignoranza, in questo senso, minaccia la democrazia stessa: un popolo incapace di comprendere la complessità del reale diventa manipolabile, vulnerabile alle promesse populiste e alle narrazioni ingannevoli.
In questo scenario, l’Italia sta vivendo una mutazione morfologica senza precedenti: è il Paese europeo con il maggior numero di acquisizioni di cittadinanza (+112% in dieci anni). Eppure, mentre l’identità nazionale cambia, cresce la guerra delle identità sessuali, etniche e religiose. La domanda è inevitabile: siamo culturalmente preparati a gestire questa trasformazione?
Il problema non riguarda solo la memoria storica o la cultura generale. Coinvolge l’intero sistema educativo. Gli studenti italiani non raggiungono i traguardi minimi di apprendimento: il 43,5% degli alunni dell’ultimo anno delle superiori fatica con l’italiano, mentre il 47,5% non raggiunge i livelli richiesti in matematica. Negli istituti professionali, la situazione è catastrofica: l’80% degli studenti ha difficoltà in italiano e l’81% in matematica. La scuola non forma più cittadini consapevoli, ma individui incapaci di interpretare il mondo che li circonda.
La “Sindrome Italiana”, come la definisce il Censis, è un limbo pericoloso: un equilibrio apparente che maschera il declino. È un’ignoranza che non genera solo fragilità sociale, ma indebolisce le fondamenta stesse della democrazia. Se i cittadini non sanno più distinguere il vero dal falso, come possono scegliere consapevolmente chi li governa?
Il rischio è che questa fabbrica degli ignoranti continui a produrre generazioni prive di spirito critico, facilmente manipolabili e incapaci di affrontare le sfide globali. Perché l’ignoranza non è solo una mancanza di nozioni, ma una mancanza di potere. E in una democrazia, il potere appartiene a chi sa.