La fabbrica della dignità

L’aria frizzante di Villa Lagarina mi accompagna mentre attraverso il cortile dello stabilimento Chindet, una cooperativa sociale incastonata in un paesaggio che sembra galleggiare tra la quiete delle montagne e l’operosità della sua gente. Mi aspettano tre uomini: Alessandro Bezzi, responsabile dello stabilimento, Andrea Ferruzzi, vicepresidente della cooperativa, e Antonio Frizzera, responsabile commerciale. Si stringono nelle giacche, sorridono, e mi invitano a seguirli. Non sono qui per scrivere un comunicato stampa né per fare pubblicità. Ma per capire. Cosa c’è dietro questa realtà? E perché il lavoro, così quotidiano, può diventare rivoluzione?

All’interno, l’atmosfera è quella tipica di un ambiente industriale: un incessante ronzio di macchinari, il suono del metallo che striscia contro il metallo, odore di chimica pulita. Un mondo regolato da turni e tabelle, eppure c’è qualcosa di più, un’energia che vibra sottile nell’aria. Andrea mi illustra la linea di produzione: detergenti, prodotti chimici per uso domestico, professionale  e industriale. La ricerca parte da un’analisi molecolare, mi spiega, con il tono di chi potrebbe raccontarti tutto di quelle formule, ma sa che non ti servirebbe. I numeri, le molecole, le composizioni sono solo la pelle delle cose. È il cuore di Chindet che voglio vedere.

Da sx, Andrea Ferruzzi, Alessandro Bezzi e Antonio Frizzera

Ecco la particolarità: una cooperativa manifatturiera di produzione, non di servizi. Un caso unico in Italia. E non è un dettaglio da poco. Una sfida che i miei accompagnatori, insieme al presidente della cooperativa Michele Odorizzi, hanno raccolto e trasformato in realtà nel 2016. Da qui, oggi, lavorano circa cinquanta persone, suddivise tra lo stabilimento e la Casa Circondariale di Trento, dove viene gestita una linea di confezionamento da detenuti in percorsi di reinserimento lavorativo. Detenuti, ex tossicodipendenti, persone con disabilità. Lavoratori fragili, mi dicono. Ma di quella fragilità, qui, non c’è traccia. C’è solo il lavoro, la dignità che ne deriva, il riscatto che non ha bisogno di parole.

Mentre seguiamo il percorso della produzione, Alessandro e Andrea mi mostrano la linea Aperegina, il fiore all’occhiello della cooperativa. Un marchio di detergenti ecosostenibili, certificati ICEA, senza test sugli animali. Prodotti che non si limitano a pulire superfici, ma che nascondono un’etica profonda: produrre con materie prime di origine vegetale, ridurre l’impatto ambientale, utilizzare energia da fonti rinnovabili. Lo sviluppo sostenibile non è solo uno slogan qui, è una pratica quotidiana. E come mi dicono, con un orgoglio appena accennato, Aperegina è venduto in molti supermercati locali. Ma più che il successo commerciale, quello che emerge è il messaggio.

In un’epoca in cui le aziende spingono sulla narrazione della sostenibilità come leva di marketing, Chindet lo fa in silenzio, lavorando. C’è che questo stabilimento a me sembra un piccolo miracolo; per una volta il profitto non ha la meglio sulla solidarietà. O meglio, la solidarietà qui è diventata profitto: un profitto sociale, intangibile ma reale. Una risposta concreta al dramma del lavoro che manca, alla marginalizzazione che intrappola.

Un momento dell’intervista

Antonio Frizzera si appoggia al bancone del piccolo negozio interno all’azienda. Qui la clientela del paese viene a riempire i propri flaconi di detersivi alla spina, prodotti a basso costo, eco-friendly. Gli chiedo cosa significhi per lui lavorare in una cooperativa sociale come questa. “È un dovere”, mi risponde. Poi sorride, e capisco che per lui non è solo questione di dovere. È una scelta. La stessa che Chindet offre ogni giorno a coloro che impiega: una seconda possibilità, un’alternativa a una vita che, per molte ragioni, è scivolata via. Ed è qui che, improvvisamente, tutto diventa chiaro.

La cooperativa non è solo un modello di business innovativo, ma un microcosmo dove si riscrivono destini. I lavoratori segnalati dai servizi sociali, che qui si guadagnano da vivere, non sono semplicemente impiegati. Sono persone a cui, per la propria vita, è stata proposta una narrazione tutta nuova. In questo gesto si riflette la tensione morale, sociale, umana di Chindet. Perché il lavoro, mi dicono, non è solo un diritto. È un’ancora. È lo strumento attraverso il quale ci si riprende dal fondo.

La mattinata volge al termine, e mi ritrovo all’uscita dello stabilimento, guardando la luce che cala sulle montagne. Penso a quello che ho visto. È più di una semplice fabbrica. È un laboratorio sociale, una macchina che ripulisce più delle superfici sporche: ripulisce vite. Mi giro verso Andrea, Alessandro e Antonio, e mi rendo conto che non si tratta solo di detersivi. È una questione di dignità. Di riprendere in mano se stessi, un pezzo alla volta. E non posso fare a meno di pensare che sì, forse il giornalismo ha ancora una ragione d’essere qui. Non per promuovere, non per raccontare successi. Ma per rendere visibile l’invisibile.

“Grazie per la visita”, mi dicono alla fine. E io lascio l’azienda, con la sensazione che il loro lavoro sia più di quanto potessi immaginare. Un lavoro che ripara, rimette in moto, riscatta. Un lavoro che non trasforma solo materie prime, ma soprattutto esseri umani.

LA STORIA. Un destino, condiviso per caso

Villa Lagarina, 2015. Uno stabilimento vuoto, l’ex Latte Trento, in attesa di un nuovo destino. Come fosse stato messo lì apposta, come se, in un gioco di coincidenze, quel vecchio stabilimento aspettasse proprio loro. Forse lo sapevano tutti, che non sarebbe stato facile, ma lì, in quel momento, tutto sembrava combaciare. Negli anni ‘60, era iniziato tutto con la Roverchimica, poi la Chindet, su a Vigolo Vattaro. Le fabbriche trentine del dopoguerra: spente, grigie, con il rumore costante delle macchine che sembrava scandire il tempo stesso. L’odore acre dei detergenti era l’odore della ricostruzione, della pulizia dopo il caos. Si erano trasferiti a Mori, si chiamavano Chemitech,  avevano unificato la produzione, cercato efficienza, sognato espansioni verso il Veneto. Ma le cose non vanno mai come uno spera, soprattutto quando si tratta di trovare una sede “adatta” alla realizzazione di un progetto condiviso tra persone sempre più unite.  Di qui la ricerca, approdata negli uffici di Cooperfidi gestrice del fondo immobiliare per la cooperazione e poi la proposta, quella fabbrica a Villa Lagarina. “Un segno,” dicevano tra loro. “Il destino.” Ma non c’è mai solo il destino. C’è Michele Odorizzi, c’è Kaleidoscopio, c’è una conversazione tra amici che diventa un’idea, che diventa una realtà. Lavorare in carcere. Portare la produzione, o meglio, parte di essa, lì, tra i detenuti. In fondo, che cos’è la produzione se non una catena, un processo che si adatta alle mani che lo eseguono? Michele, Antonio, Andrea ed Alessandro non volevano solo fare prodotti. Volevano fare qualcosa che avesse un significato, che legasse insieme economia e giustizia sociale, che desse alle persone – quelle che di solito non hanno opportunità – la possibilità di esserci e di contribuire.

Cooperativa sociale: un ponte tra marginalità e opportunità

Se lo chiedono in pochi. Forse perché suona come una di quelle formule vuote, qualcosa che si dice senza pensarci troppo. Ma una cooperativa sociale non è un’azienda normale, non è una di quelle strutture pensate per chi può permettersi di scegliere il proprio destino, o almeno immaginare di farlo. No. Una cooperativa sociale è costruita per quelli che non possono, per quelli che si trovano ai margini, le vite spezzate, i profili nascosti che la società preferisce dimenticare. Ed è qui che entra in gioco Chindet.

Non si tratta di dividere profitti, né di fare acquisti collettivi. Non si tratta di bilanci, azionisti, grafici che salgono e scendono. È una spinta etica, quasi sfrontata, verso qualcosa di più alto. Le regole sono chiare: la Legge 381 parla di soggetti svantaggiati, quelli che il sistema ha etichettato come “portatori di disagi”. Come se un’etichetta potesse raccontare la complessità di una vita. La legge richiede che almeno un terzo dei lavoratori sia di categoria protetta. Ma Chindet va oltre: più del 50% dei dipendenti porta con sé storie che il mondo preferirebbe ignorare. Dipendenze, disagi psichiatrici, vite consumate da silenzi troppo lunghi.

I tirocini si accumulano, spesso come ultimo tentativo di riportare qualcuno dentro il circuito del lavoro. La collaborazione con l’Agenzia del Lavoro è stretta, così come quella con il Ministero della Giustizia per i detenuti. Il carcere, la fabbrica, la cooperativa: tutto si intreccia in un processo che non ha mai a che fare solo con il prodotto finale.

Lavorare qui non è semplicemente produrre. È fare qualcosa per la società, un ponte tra l’economia e il welfare statale o provinciale. Ma si può davvero restare distaccati? Si può mantenere quella freddezza gestionale necessaria quando, ogni giorno, hai davanti persone che chiedono non solo un lavoro, ma spesso una seconda possibilità? Gli intervistati scuotono la testa. No, è impossibile. Le richieste di prestiti arrivano come richieste di aiuto, i cambi turni diventano rinegoziazioni di vite già precarie. C’è chi ha bisogno di un alloggio, chi non sa dove andare. Eppure, anche dentro a questa realtà, bisogna trovare un equilibrio, prendere le decisioni giuste, mantenere una distanza che non diventi mai indifferenza.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.