La grande paura. Tre anni dopo

Quel 9 marzo aveva inchiodato ad un muro anche il nostro mestiere. Anche noi, come milioni di altri uomini e donne, ci eravamo domandati che fare, che farne di questo lavoro, di una rivista che andava sfogliata con le mani e le mani, si sa, sono un veicolo per i virus, il loro mezzo di trasporto preferito. Un breve consulto in redazione: e ora che si fa? La pubblicità? Gli articoli? La distribuzione? Boh. Un punto interrogativo grande così. Ricordo il breve viaggio – un sabato mattina – da casa all’ufficio, attraverso una statale assolutamente deserta, a prendere il computer, inscatolarlo e prepararsi a metterlo sulla scrivania di casa. L’imperativo era non pensare, non credere assolutamente a quel che stava accadendo.

Scriviamo di questa cosa, su! Una telefonata ai collaboratori, avete voglia di dire qualcosa su tutto ciò? Come, cosa? La fine del mondo. Ecco che, tra un panino, un tè e una brioche nacque pian piano un articolo, a partire da quella frase tanto ripetuta: “Andrà tutto bene”. Ovunque, sempre, ripetuta fino a ribaltare il suo effetto, facendo intravedere il suo esatto contrario, che no, non sarebbe andato tutto bene. Ecco l’angoscia, di nuovo. Torneremo mai come prima?

La foto di apertura, questa volta, l’abbiamo scattata sul posto. Per forza, tutto il mondo non è mai stato così paese. Le finestre di casa mia, quel lenzuolino appeso in camera dei ragazzi. Ancora quella frase.

Arrivano i pezzi dei giornalisti. “Oggi che siamo rinchiusi in casa – scriveva Fiorenzo Degasperi – ci può aiutare l’aver dentro di noi non una tavola piatta, una distesa marina quieta, ferma e immobile (lo siamo già fisicamente), ma una burrascosa, temporalesca frammentazione psicologica. Ogni frammento è un microcosmo: guardo l’icona acquistata in un piccolo monastero di Creta e il pensiero vola, fugge sopra le onde del Mediterraneo, inseguita da un toro sbuffante e bavoso, scavalca il Monte Ida per planare, accompagnato dal canto del vento e dal belato delle greggi, in questo piccolo e bianco monastero nel quale una lunga teoria di scalini ci conduce alla grotta, nel ventre della terra, là dove le apparizioni sono una realtà e le realtà sono soltanto illusioni”.

“Questo lavoro era più leggero, – gli faceva eco Denise Fasanelli – spensierato qualche mese fa: si caricava il furgone con i pasti per gli anziani e si dirigeva presso le loro abitazioni. 

Oggi è diverso, oggi non è come prima. Oggi mettiamo i guanti, li cambiamo con estrema attenzione ad ogni utente evitando contaminazioni, ci passiamo il gel disinfettante sulle mani ormai screpolate. Ripetiamo questi gesti di continuo”.

“Cambio stanza e passo così al divano, – ecco la testimonianza di Tiziana Tomasini – al telegiornale e le chat con i gruppi e gli amici. Sento che sto per cedere. La stanchezza si fa sentire. Riordino il tavolo che dovrà essere pronto per la sala stampa di domani. Facciamo pace e ci salutiamo. Segno una crocetta sul calendario accanto al giorno che ormai è trascorso. Ormai è una lunga fila rossa che aspetta soltanto la parola fine”.

Arriva il contributo della nostra “inviata” milanese, Silvia Tarter: “Appena finirà saremo le stesse persone? Probabilmente, dopo un po’ ci abitueremo di nuovo a tutto, e torneremo a lamentarci del collega antipatico, del troppo lavoro, delle polveri sottili qui in città, dove non ho mai visto cieli tanto azzurri come in questi giorni. Ma almeno per un po’, per qualche momento, sono sicura che proveremo una grande gioia e apprezzeremo tantissimo la riconquistata libertà”.

Milano, già, ecco l’immagine che avevamo dimenticato, la più crudele forse: 11 marzo 2020, centinaia di persone che, in cerca di un treno alla stazione centrale, scappano disordinatamente dalla città, come insetti notturni sorpresi da un fascio di luce: una scena che non dimenticheremo mai. Il momento in cui si gettò al vento la nostra dignità.

Tre anni fa il giorno che ci avrebbe cambiato la vita, l’inizio di un anno che avrebbe spazzato via 100mila persone, 100mila volti, storie, affetti andati via per sempre. È il 9 marzo 2020 quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte – visibilmente commosso – annuncia la chiusura, pronunciando una parola inglese con cui avremmo imparato a familiarizzare: lockdown. “Le nostre abitudini vanno cambiate, lo dobbiamo fare subito”, dice, quasi profeticamente. Una cosa mai vista prima. La fine del mondo. Pensiamo di aver capito male. Domandiamo a chi ci sta vicino, telefoniamo a parenti, amici. No, è proprio così. È tutto vero.

La surreale Trento deserta, in uno scatto di Lucio Tonina

In quegli stessi tragici momenti, si gioca l’ultima partita del campionato, Sassuolo-Brescia. All’ultimo minuto del primo tempo, Francesco Caputo, attaccante dei neroverdi, segna e corre verso la telecamera più vicina. Anziché la consueta spensierata esultanza, mostra un foglio di carta. “Andrà tutto bene. Restate a casa”, c’è scritto con un pennarello rosso. In quella situazione surreale, per la prima volta l’angoscia ci pietrifica.

Seguiranno 69 giorni di paralisi sociale. Due mesi che non dimenticheremo mai più. Le canzoni e la musica dai balconi, per farci coraggio gli uni con gli altri. Ogni sera, alle 18, il bollettino dell’incubo in cui improvvisamente ci siamo ritrovati a dover vivere. Ci aggrappiamo a quella frase: “Andrà tutto bene”. La ripetiamo, come un mantra, una formula magica, un rituale voodoo che esorcizzi la paura.

Quindi, il 27 marzo il giorno più buio. In conferenza stampa quel numero spaventoso: 969 morti giornalieri. Nemmeno in una guerra… Una vertigine più alta delle altre ci assale quella sera: dove andremo a finire di questo passo? L’umanità in affanno – proprio come gli ammalati di coronavirus, come i ricoverati nelle terapie intensive, sempre più sature – assiste sgomenta alla celebrazione di Papa Francesco. Piazza San Pietro è deserta, sferzata dalla pioggia quando il Santo Padre solleva al cielo l’Ostensorio, per la benedizione Urbi et Orbi. Il silenzio rotto solo dalle sirene dei mezzi delle forze dell’ordine e delle ambulanze, parcheggiate al limitare della piazza. Le braccia di Francesco salgono a fatica, pochi centimetri per volta, eppure l’Ostensorio va su, sempre più su. Arriva fino all’alto dei cieli del nostro terrore. Quale sceneggiatore al mondo avrebbe potuto immaginare un’inquadratura del genere?!

Nei giorni seguenti, come dimenticare il silenzio nelle strade, le auto con gli altoparlanti che girano per le strade delle città, dei paesi, di borghi più belli d’Italia e anche di quelli meno belli: “Non rischiate la vita, restate a casa!” Sì, proprio una cosa mai vista prima. La fine del mondo. Le code davanti ai supermercati sono un altro scenario arrivato dritto dritto da una serie tv di genere catastrofico. I camion dell’esercito a Bergamo, per portarsi via tutte quelle salme per la cremazione in altre regioni. Gli ospedali al collasso, ovunque il lamento delle sirene delle ambulanze che corrono di qua e di là, come madri disperate in cerca di un aiuto per i propri figli ammalati.

Un’ultima immagine simbolo: l’inquietante solitudine del Presidente Sergio Mattarella all’Altare della Patria, nel giorno della Liberazione, il 25 aprile. Liberaci dal male, tu che puoi! Dio, demiurgo, Natura, Allah, Jahvé, Shiva, comitato tecnico scientifico. Non ci interessa più chi, basta che lo si faccia. E subito! Perché questa, se proprio non lo avete ancora capito, è una cosa mai vista prima. È la fine del mondo.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.