Prima ancora della fantascienza fu la letteratura ad aprire uno spiraglio su ciò che muta. Nel mondo greco e in quello romano era consuetudine convivere con corpi mutanti e metamorfosi del corpo. Se, pittoricamente, non abbiamo testimonianze di ciò che vive tra due mondi, bastano le parole di Esiodo, della poesia ellenistica e del romano Ovidio, per aprire le porte su di una storia universale che soprattutto la fantascienza e il fantasy sapranno sviluppare fino a trasformare la fiction in resoconto quotidiano di una realtà ormai fatta di continue modificazioni, dove prevale l’uso della variatio, cioè del passaggio continuo tra il di qua e il di là. La scienza e l’informatica hanno già oltrepassato di anni luce le eventuali remore morali sorte nel ritrovarsi dentro molteplici realtà in perenne cambiamento. È là, nelle terre di confine, dove avvengono incessanti contaminazioni, dove – per rimanere nel tema dell’arte – i linguaggi diventano babelici, che fiorisce la ricchezza del pensiero visivo. Penso al mondo onirico e mitologico di Alberto Savinio, ai personaggi di Max Ernst o alle ultime opere di Leonora Carrington o di Remedios Varo. Ma le radici di un’arte che trasfigura continuamente, oltre che nella letteratura, affondano in quel mondo pittorico e scultoreo che delle contaminazioni aveva fatto la propria ossessione: i bestiari medioevali.
È l’epoca del romanico e del gotico, con i suoi gargoyle, gli animali fantastici diventati reali e quelli reali trasformati in esseri angelici o diabolici, di saltimbanchi con le facce da scimmia e di visi scolpiti sul fondoschiena, di grilli che fanno capolino da miniature moralizzanti e di capitelli filmici che insegnano, indicano e castigano il tremante osservatore di questo mondo a rovescio. Basti osservare lo strano popolo dell’universo lovecraftiano materializzato nelle demoniche acque che costringono San Cristoforo a sforzi eccezionali: sirene, mostri, personaggi acefali, serpenti naga, draghi, serpenti bianchi, ecc.. È da questo humus che nasce quella miriade di torrenti impetuosi che si rifanno all’anticlassicismo di cui, forse, Hieronymus Bosch è la punta di diamante e il giardino manierista e alchemico di Bomarzo è la materializzazione perenne. In un mondo dove tutto è già stato detto, agli artisti non rimane altro che la solitudine che sfocia nella consapevolezza che l’arte oscilla tra l’orripilante e stridente canto delle Sirene, la follia della percezione di vivere in un mondo babelico fatto di meandri e labirinti nei quali però, rispetto al passato, non conosciamo il volto del Minotauro e non riusciamo più a materializzarlo, e un senso di morte – morale, ecologica, politica, ecc. – che ci fa sembrare Thanatos, figlio della Notte, una presenza martellante di cui non riusciamo a liberarci. La vera metamorfosi sta nello sguardo della mente e del cuore. Saper vedere il mondo come una continua e impellente metafora, un’allegoria, un reiterato territorio di simboli. Allora sì che, a noi spettatori spetta il ruolo di materializzare le variationes per potersi perdere perché ogni comportamento ed idea deve essere figlio di Circe, avere la capacità e la forza di sedurre e trasformare, spiazzando continuamente chi predica Verità, Veridicità, Realtà. La metamorfosi, più che una modalità, è un luogo in cui avvengono strani parti e stravaganti incontri: l’alchimia, così come la mistica, fa della conoscenza la via da percorrere per approdare a universi liberi dai vincoli del male. Forse non si crederà più alle invisibili, invadenti e traboccanti presenze divine che hanno fatto delle Metamorfosi di Ovidio un vero e proprio capolavoro da tenere gelosamente custodito sotto il cuscino, però quel mondo non è scomparso del tutto, ha disseminato tracce, orme, schegge. Proiettandoci in un mondo fluttuante – direbbero i giapponesi –, che cambia continuamente.