
Il 13 gennaio 1985, Trento e il Trentino – così come tutta l’Europa – si svegliarono in un silenzio irreale. Le previsioni meteo parlavano di neve, ma nessuno immaginava che sarebbe stata una delle perturbazioni più lunghe e insistenti degli ultimi decenni. Iniziò così, piano, come una leggera polvere che copriva le strade e i tetti, ma dal 14 gennaio qualcosa cambiò nella consapevolezza collettiva. Il cielo, che sembrava aver colto l’entità dell’evento, si fece sempre più grigio, e la neve, sempre più fitta, iniziò a cadere senza sosta.
La città, che di solito affrontava l’inverno con una certa tranquillità, si ritrovò presto travolta da quella che sembrava una marea bianca che non si fermava mai. Dal 13 al 17 gennaio, le temperature scesero drasticamente e la neve non smise di cadere, accumulandosi in metri di altezza. Le strade divennero impraticabili, i negozi, le case, gli uffici – tutto fu ricoperto da una coltre che rendeva difficile anche l’orientamento.
Le comunicazioni si interruppero, le linee telefoniche erano fuori uso e, per giorni, il traffico cittadino si fermò. I mezzi di trasporto non riuscivano a circolare, le scuole furono chiuse e i cittadini, seppur disorientati, si organizzarono per affrontare la situazione. Le famiglie si rifugiarono nelle case, con il timore che la neve non finisse mai. La città si rese conto che quel manto bianco non era solo una scena da cartolina, ma dava la strana sensazione di essere un’entità potente e minacciosa, quasi metafisica.

Ci fu chi non poteva più uscire dalla propria abitazione, chi doveva scoprire nuovi modi per affrontare la quotidianità. I vigili del fuoco, la protezione civile, e i volontari si impegnarono senza sosta, cercando di aprire varchi e garantire i servizi essenziali. Ma la neve, capricciosa e incessante, sembrava non volersi fermare, scatenando una vera e propria emergenza.
Alle prime ore del 17 gennaio, dopo 72 ore di fila, – a Trento scesero tra i 130 ed i 150 centimetri di neve – la precipitazione parve affievolirsi.
Certo, a quel punto, Trento, e tutta la sua provincia, erano profondamente segnate dall’invasione e dall’occupazione bianca.
Può sembrare strano, ma il ricordo lasciato da quella nevicata è ancora vive nei racconti di chi l’ha vissuta. Non solo come un evento meteorologico, ma come una lezione di fragilità, una consapevolezza di quanto possa essere potente e imprevedibile la natura.
Quella nevicata, che sembrava sconvolgere il presente, portava con sé anche una valenza simbolica profonda: la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. La tranquillità di una città che si considerava a misura d’uomo fu messa alla prova. Fu un momento di rottura, un segno che l’ordine precostituito non era eterno, che la modernità e la sicurezza apparente potevano essere scosse da eventi naturali che, come una grande nevicata, – almeno in teoria – potrebbero non fermarsi mai.



Con la fine della nevicata, però, Trento, come la maggior parte del paese, si avviò a una nuova stagione: quella della – seppur debole – consapevolezza che l’imprevisto avrebbe fatto parte della quotidianità e che il controllo, seppur illusorio, era ormai solo un ricordo. Tanto è vero che oggi, quaranta anni dopo, la grande nevicata del 1985 è ancora viva nei racconti di chi si trovò, impotente e affascinato, sotto quella coltre che sembrava infinita, come un segno di come le epoche possano scomparire in un batter d’occhio, travolte da qualcosa che non si può prevedere.
Inaspettatamente, nel 2020, una nuova tempesta, diversa ma altrettanto devastante, segnerà il mondo intero: la pandemia di Covid-19. La vita, come quella di Trento durante la nevicata del 1985, verrà nuvamente messa in pausa. Le città si svuoteranno, le strade torneranno ad essere deserte, e la popolazione si rifugerà in casa, affrontando un nemico invisibile, che come la neve, entrerà nei luoghi più intimi, nelle case e nelle vite di ognuno, con una forza inaspettata. Se la neve, nel 1985, ci aveva mostrato la nostra fragilità di fronte alla natura, il virus ci metterà davanti alla nostra vulnerabilità di fronte a ciò che non vediamo, che non possiamo controllare.
Ancora una volta, la natura lanciava un messaggio: ci avvertiva, ci metteva di fronte alla realtà di quanto possiamo sentirci al sicuro, ma quanto poco ci voglia per cambiare tutto. Era un altro monito, che si aggiungeva al precedente. Una chiamata a riscoprire ciò che veramente conta, a non dare mai nulla per scontato. La neve del 1985, come la pandemia, ci ha ricordato che la voce e gli atti della natura non sono mai da sottovalutare, e che, in un modo o nell’altro, ci fa vedere quanto siamo piccoli e quanto possieda il potere di cambiarci.

I libri
Due libri sono usciti in questi mesi per celebrare il quarantennale della grande nevicata del 1985: un saggio e un romanzo, entrambi capaci di intrecciare memoria storica e riflessione sociale.
“La nevicata del secolo. L’Italia nel 1985” di Arnaldo Greco e Pasquale Palmieri (Il Mulino) ripercorre l’“inverno del secolo” come uno spartiacque nella memoria collettiva. Tra gennaio e febbraio 1985, l’Italia intera fu investita da un’ondata di gelo e neve senza precedenti, paralizzando città e trasformando il paesaggio urbano e umano. Gli autori analizzano non solo il fenomeno meteorologico ma anche il contesto storico: un paese segnato da terrorismo, crisi economica e corruzione, sospeso tra difficoltà e speranze sotto una coltre bianca che sembrava fermare il tempo.
“La grande nevicata dell’85” di Pino Loperfido (Edizioni del Faro) usa la neve come simbolo della fine di un’epoca. Seguendo Vito, arrivato in Trentino nel 1980, il romanzo intreccia eventi personali e storici – dal Mundial al disastro di Stava – per raccontare un decennio cruciale. La nevicata segna la perdita dell’innocenza collettiva, in un mix a tratti visionario e postmoderno che riflette su chi siamo diventati.

