La prima cicatrice

Stava disinfettando il ginocchio sbucciato di suo figlio, sul lavello del bagno poggiavano il cotone e una piccola garza, qualche cerotto tra cui scegliere, quando lui si irrigidì, senza voler mostrare gli occhi lucidi e il dolore che provava. Le chiese se quella ferita sarebbe diventata anch’essa una cicatrice come quella che intravedeva appena sopra la scollatura dell’abito della madre. Perché i bambini sono orgogliosi delle loro ferite, delle loro cicatrici da mostrare come un trofeo, sempre pronti a raccontarle come un’avventura straordinaria, sia essa la scalata di una montagna, il salto più alto del mondo da un’altalena per raggiungere le nuvole o il risultato di una storica vittoria a pallone in cortile tra vicini di casa.

Cicatrice. Una parola che immediatamente richiama alla mente un evento del passato. Niente di più falso. Te la porti addosso ogni giorno nel tuo quotidiano ed è sempre lì. Sia essa il risultato di un’imprudenza fanciullesca, dello spigolo di un mobile mal calcolato, del vecchio vaccino contro il vaiolo, dell’irresistibile voglia di grattarsi le bollicine della varicella o di un taglio fatto per inserire un catetere che ti ha permesso di fare la chemioterapia mentre tuo marito se ne andava di casa incapace di sopportare l’impegno e l’incertezza di quella situazione.

Non voleva tradire le speranze di suo figlio e si limitò a sorridere, accennando alla probabilità che sarebbe potuto rimanere un segno sul suo ginocchio. Il bambino, in preda all’eccitazione, chiese alla madre se quel segno le faceva ancora male. Sapeva che quella era ormai una parte di sé, la notava sempre meno dopo anni in cui aveva cercato di nasconderla con creme riparatrici, trucchi, vestiti, sciarpe, ma occasionalmente si faceva sentire. Ai cambi di stagione, con il clima umido. “Ogni tanto dà fastidio, nulla di insopportabile però”, rassicurò il suo piccolo curioso che a quel punto se ne tornò a giocare fiero e appagato. Pronto a nuovi salti verso le nuvole, a nuove partite.

Rimasta sola davanti allo specchio, si scostò leggermente il vestito, osservando quello spicchio di pelle, si accarezzò la piccola mezza luna spessa e intorpidita al tatto che ogni giorno le ricordava quanto la cosa più difficile fosse amare sé stessa prima di tutto. Era tornata a pensare ai tatuaggi, in fondo le era sempre piaciuto vederli sulla pelle degli altri, ma non si era mai decisa in tal senso. Tanto la vita ci pensa da sola, a tatuarti. Ti lascia addosso i suoi segni come e quando le pare, anche quando hai un bambino in fasce. E a quel punto, nemmeno guarendo, nonostante la propria memoria, il corpo è in grado di formare una replica esatta del tessuto danneggiato. Una cicatrice non è mai come la pelle normale, non torna più come prima. Non era vero che una cosa aggiustata potesse diventare più bella, com’era di moda pensare di certi vasi decorati nelle crepe con l’oro, ma rimaneva convinta che non essere andata in frantumi fosse di certo preferibile. In fondo aveva imparato a fare i conti con i fatti, la vita e i salti dalle altalene.

“Mamma, ma anche io ho delle cicatrici?” Era rientrato nel bagno, distogliendola dai suoi pensieri e tirandola per i pantaloni per richiamare l’attenzione. “Sai, una ce l’hai anche tu, l’abbiamo tutti.” La guardò incredulo, gli occhi spalancati in attesa di una spiegazione. “C’è una cicatrice che ci ricorda la prima volta che ci siamo separati da qualcuno, che abbiamo urlato la nostra autonomia, che abbiamo pianto. Si tratta dell’ombelico”, disse con gli occhi umidi stringendo suo figlio tra le braccia.

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Pubblicato da Denise Fasanelli

Mamma insonne e sognatrice ad occhi aperti. Amo la carta, la fotografia e gli animali. Ho sempre bisogno di caffè. Non ho bisogno di un parrucchiere, d’altronde una cosa bella non è mai perfetta. Ho lavorato nel campo editoriale, della comunicazione e mi sono occupata di marketing per alcune aziende. Ho pubblicato un libro insieme all’ex ispettore Pippo Giordano: “La mia voce contro la mafia”(Coppola ed. 2013). Per lo stesso editore, ho partecipato, in memoria dei giudici Falcone e Borsellino, al libro “Vent’anni” (2012) con un racconto a due mani insieme all’ex giudice Carlo Palermo.