Giochi Olimpici di Atene, 29 agosto 2004. Al 35esimo chilometro il brasiliano Vanderlei De Lima è in testa e sembra potercela fare, non fosse che ad un certo punto la sua canotta gialloblu “scompare”. Le telecamere non lo trovano più. Quello che è accaduto ce lo spiega il replay. Un individuo in kilt ha fatto irruzione sul percorso di gara, con una una scritta sulla schiena: “Leggete la Bibbia, dice sempre la verità”.
È costui tale Cornelius Horan, detto Neil, presbitero irlandese 57enne non nuovo a gesta di questo tipo.
Ad Atene, Neil impersona l’imprevisto. Quello che in qualsiasi momento può sconvolgere una vita, così come una corsa. Perché il fascino della maratona è immenso, perfino difficile da spiegare, ma assomiglia paurosamente alla vita stessa. E a colpire di questa disciplina, di questo forsennato rimestare i piedi per quaranta e passa chilometri non sono tanto le origini leggendarie. E non è nemmeno l’anacronismo della fatica bestiale a cui gli atleti si sottopongono, in una società dove tutto ti insegnano meno che ad accettare la fatica.
Quello che rimane è la solitudine: il maratoneta che parte, corre e arriva da solo. Una solitudine vera, densa, fatta di pensieri, respiri e gambe che scoppiano. Un po’ come nella vita. La lunga, spesso difficile, eppure meravigliosa vita. Con un deficiente in kilt appostato ad ogni angolo del giorno, pronto a mandarti tutto all’aria. Solo lui, solo tu.
Come solo era Fidippide, quel giorno, 2500 anni fa, sulla spianata di Maratona, quando sconfitti i persiani gli venne ordinato di correre ad Atene e portare la notizia della vittoria. Quarantadue chilometri a perdifiato. Per poi morire. Da solo. Subito dopo aver urlato: “Vittoria!”.
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