
“Se la speranza è l’ultima a morire, chi visse sperando morì non si può dire”, cantano i Litfiba in un brano del 1991, intitolato “Gioconda”. Semplice da ricordare, il brano riprende un proverbio noto: “la speranza è l’ultima a morire” e lo trasformava nella sua esatta negazione: pure chi ha vissuto sperando, alla fine è morto. In realtà tutto quell’album dei Litfiba – “El Diablo” – è improntato a dissacrare le certezze legate alla morale, alla Chiesa e alle convinzioni dell’Italia di allora. Oggi forse quel brano non suonerebbe particolarmente dissacratorio. Siamo in un’epoca di generalizzata e avanzata disillusione? Forse sì. O meglio, abbiamo mangiato la foglia. Siamo smaliziati e più simili a come eravamo prima dell’era del grande ottimismo, durata dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai tempi di “El Diablo”.
La speranza, infatti, non ci ha necessariamente sempre accompagnati. Nei miti antichi, il tema della speranza non ha alcun ruolo, anzi non esiste. Il povero Ettore, eroe troiano, uomo pio e giusto, impeccabile padre e marito, viene ucciso brutalmente da Achille e trascinato intorno alle mura di Troia. La povera Didone, nobile regina piena di virtù, intelligente e potente, innamorata di Enea e da lui abbandonata, si suicida trafiggendosi con la spada. Insomma, gli esempi sono infiniti. Il folclore a cui abbiamo fatto riferimento per millenni, più che di speranza, parlava di tragedie. Ci metteva in guardia. Ci raccontava orribili verità su di noi, sulla caducità della vita e sulle nostre ossessioni, come l’invidia, la violenza, la vanità e il tradimento. Le religioni, dal canto loro, hanno senza dubbio portato in auge il tema della speranza, ma non in questa vita, bensì nell’Aldilà. Se in questo mondo eravate vessati, malati, sfigati, massacrati, nell’altro finalmente Giustizia si sarebbe compiuta.
Le grandi ideologie del Novecento hanno contribuito a spostare la speranza dall’aldilà all’aldiquà. Solo il capitalismo, nostra guida assoluta nel presente, ci ha innestato la speranza così come la conosciamo oggi. Perché era una fonte di lucro. Dagli anni Sessanta in poi, la speranza, accompagnata all’ottimismo, veniva iniettata nella società per poter far sì che la gente consumasse meglio, di più e con più fiducia. Il capitalismo non ti dice che se sei sfigato nell’aldilà ti riscatti. Il capitalismo ti dice che se sei sfigato ti riscatti andando a comprare qualcosa. Un SUV, un lifting facciale, una friggitrice ad aria, non importa cosa. Tu compra e vedrai. Per un po’ ha funzionato. Anzi per molto, e ancora oggi un po’ funziona. Abbiamo sperato un sacco, persino di poter salire le famose scale sociali. Sei povero? Puoi diventare ricco! Basta che ti inventi qualcosa. I consumi, di ogni tipo, devono sembrare a portata di mano, anche se non lo sono. E così miti moderni di miliardari nati nelle favelas brasiliane hanno iniziato a sostituire i vecchi miti di Achille, Ettore e Didone. I social poi sono divenuti i nuovi “aedi”: sono loro a cantare le gesta eroiche di questi ricchi che consumano tanto. Sono loro a creare l’illusione o speranza di essere come loro. Ma abbiamo iniziato a mangiare la foglia. In questo senso, forse, meglio che la speranza muoia per lasciare spazio a una realtà che va cambiata.