La verità del cobalto: il lato oscuro della tecnologia “green”

La svolta verso uno stile di vita più sostenibile annunciata da tempo negli innumerevoli congressi internazionali, sta vedendo qualche risultato in tal senso, anche se siamo lontani dagli obiettivi prefissati. Il settore delle auto elettriche e ibride, ad esempio, ha visto nell’ultimo anno un’impennata nelle vendite, aumentando esponenzialmente la sua quota di mercato, fino a una decina di anni fa ancora irrisoria. Sicuramente, una massiva comunicazione ha fatto la sua parte. Auto ibride, plug in, ecobonus, zero emissioni… ormai sono ritornelli quotidiani. Tanto da far pensare che tutti, tra qualche anno, ci sposteremo senza impattare sull’ambiente, o limitatamente, e alimenteremo la macchina comodamente in box invece che dal benzinaio. Ma come la storia insegna, il progresso ha sempre un prezzo da pagare, che spesso, passa purtroppo in secondo piano. Per alimentare le assetate batterie di auto elettriche, ma anche di smartphone, pc, tablet serve infatti il cobalto, un elemento chimico dai vari utilizzi. Per il motore di un’auto elettrica ne occorrono ad esempio tra gli 8 e i 10 chilogrammi. La maggioranza di questo “nuovo oro”, il 70% circa della produzione mondiale, si trova nella Repubblica Democratica del Congo, specie nella regione del Lualaba. Una parte dell’estrazione avviene ancora in modo artigianale ed è affidata a persone costrette a lavorare in condizioni durissime ed estremamente pericolose. Tra loro, purtroppo, anche bambini. Circa 40.000 bambini congolesi dai 6 anni in su, secondo l’Unicef, vengono sfruttati come manodopera a bassissimo costo. Per guadagnare una cifra con cui noi compreremmo un litro di latte, o un cappuccino al bar, per 10-12 ore al giorno, scalzi, si immergono nel fango, in pericolosi tunnel, trasportano pesanti carichi di materiale, esponendosi al rischio di contrarre malattie polmonari. Tutto ciò senza misure di sicurezza, garanzie e tutele. Nel 2020 sono state estratte 200 mila tonnellate di cobalto e la richiesta subirà un’ulteriore crescita nei prossimi anni. Questo significa che più persone, costrette da una situazione economica e politica instabile, si presteranno ad accettare tale sfruttamento per sopravvivere. Se da un lato quindi le nuove tecnologie promettono un mondo più pulito, un futuro migliore, dall’altro ripetono le solite dinamiche, nascoste, ignorate, ma necessarie ad alimentare la macchina del consumismo globale. Ciò che si può fare quindi è pretendere trasparenza. A giugno, per la prima volta, è accaduto che una Ong per i diritti umani abbia rappresentato quattordici famiglie congolesi in una causa storica contro aziende colosso della tecnologia informatica. Le famiglie protestavano contro le condizioni di lavoro che hanno portato alla menomazione o addirittura alla morte dei loro figli. L’AD di Tesla ha dichiarato sui social che la sua Model 3 utilizza meno del 3% di cobalto e che verrà completamente eliminato nella prossima produzione. Affermazioni simili si possono trovare esplorando i siti internet di altre grosse realtà, sulle voci di menu “sustainability” o “corporate social responsibility”. Qualche azienda, come Renault, si è impegnata ad elencare gli elenchi dei propri fornitori – tra i quali figurano però fornitori poco trasparenti o addirittura attenzionati – altre sono più evasive nel proclamare i propri impegni. Il problema vero certo è a monte, parte dalle disperate condizioni di vita in certi paesi, sfruttate dalle compagnie che monopolizzano i processi di estrazione e dalla catena di fornitura, prima di arrivare attraverso vari passaggi, alle aziende da cui compriamo. Fortunatamente però Amnesty International da qualche anno sta facendo luce sul tema, per spingere le compagnie ad assumersi le proprie responsabilità e a garantire e monitorare una provenienza pulita del cobalto. Qualcosa insomma si muove. A noi consumatori spetta il dovere di informarci, di capire, per non lasciarci abbindolare dal marketing e tentare così di contribuire con la nostra coscienza al cambiamento, quello vero.

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Pubblicato da Silvia Tarter

Bibliofila, montanara, amante della natura, sono nata tra le dolci colline avisiane, in un mondo profumato di vino rosso. La vita mi ha infine portata a Milano, dove ogni giorno riverso la mia passione di letterata senza speranza ai ragazzi di una scuola professionale, costretti a sopportare i miei voli pindarici sulla poesia e le mie messe in scena storiche dei personaggi del Risorgimento e quant'altro. Appena posso però, mi perdo in lunghissimi girovagare in bicicletta tra le abbazie e i campi silenziosi del Parco Agricolo Sud, o mi rifugio sulle mie montagne per qualche bella salita in vetta. Perché la vista più bella, come diceva Walter Bonatti, arriva dopo la salita più difficile.