Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Questo ci tiene a farci sapere Tiziano Scarpa, mentre approcciamo le prime pagine del nuovo “La verità e la biro” (Einaudi, pag. 232, € 18,50). Scarpa ricorda e scrive da una spiaggia greca (Kos), infestata di tamarri e scostumati villeggianti. Era dai tempi de “Le Confessioni” di Sant’Agostino – prima autofiction della storia – che non percepivamo tanto vicino l’autore di un libro, qui in vetrina come un manichino, osservato e additato dai morbosi passanti. Appare evidente come abbia assistito (e appreso) la lezione di Emmanuele Carrère, qui scimmiottato allegramente, beninteso in salsa italica.
Reminiscenze di università e di letto aprono lunghe digressioni sul pene. Sì, proprio quello, l’organo genitale, descritto fino alla nausea con enorme dovizia di particolari, con una cura da coroner o da andrologo. Oltre alla morfologia del proprio corpo, Scarpa conosce la filosofia, il latino, la storia del teatro e ci tiene a farcelo sapere.
Ma quello che non torna, però, che suona stonato è qualcos’altro; qualcosa che ha a che fare con la verità del titolo e delle altisonanti dichiarazioni programmatiche poste nelle pagine iniziali (“Ho deciso di scrivere perché ho scoperto che i grandi non mi dicevano la verità”). A poco a poco, l’idea di vuotare il sacco, di usare l’autofiction per non avere più segreti perde forza.
“Quello che non si può dire farebbe male a chi ci vuole bene…”. Lapalissiano, ma onesto. “…taccio un sacco di cose sul rapporto tra me e Lucia (la moglie, ndr), il fatto è che non voglio mettere a repentaglio la mia vita per un libro”. Legittimo. Ma allora perché non scrivere pura fiction e morta lì?!