“A scuola non ci andavo ancora, avevo cinque anni e fin da allora ricordo che disegnavo meglio dei miei due fratelli maggiori che stavano ultimando le elementari“, mi ha raccontato il pittore Carlo Sartori, nato a Ranzo, un paesino sopra Vezzano, nella Valle dei Laghi il 27 maggio 1921 e scomparso nel 2010 alle soglie dei 90 anni. A scuola il piccolo Carlo faceva di nascosto i disegni per i compagni di classe, copia i ritratti dei personaggi famosi dal libro di storia e li colora con gli acquerelli. La maestra, notata la sua bravura gli dà da illustrare le sue lezioni di storia su rotoli di carta che lui si porta da casa, disegna e acquerella, e che vengono poi affissi alla lavagna.
Suo padre, Paride, fa il calzolaio; c’è la crisi, la gente del paesino è povera e non paga. Così un giorno del 1929 (l’anno della grande crisi, appunto) il calzolaio imbarca su un carro la moglie Cesarina e i quattro figli e, attraverso un’antica mulattiera, si trasferiscono nel Banale, a San Lorenzo, col padre che si ricicla in contadino. Due anni dopo, si spostano a Poia, nel Lomaso, nei pressi di Godenzo, paese in cui metteranno radici. Sono in affitto in una vecchia casa che ha ancora il tetto di paglia, in un paesino dove, nonostante il nome non c’è proprio niente da godere. La costruzione prenderà fuoco tre anni dopo, nel 1934. Carlo ha 13 anni, è solo in casa (i suoi genitori sono temporaneamente assenti) con un fratellino e due sorelline più piccoli. Riuscirà a portarli in salvo, rientrando una seconda volta tra le fiamme. Riceverà per questo la medaglia d’argento al valor civile (che gli sarà consegnata dal Capo del Governo, ovvero da Benito Mussolini, con il ragazzo spedito a Roma da solo con un cartellino appeso al collo…).
In quegli anni arriva in paese un pittore vagante che si chiama Prezioso e dipinge affreschi. Carlo lo osserva affascinato. Si procura delle terre e prova a dipingere sui muri. Ma il colore gocciola, non si attacca, finchè, mescolando delle uova riesce a bloccarlo. Dopo il pittore-pastorello che disegna sui tronchi nei boschi nasce il pittore-imbianchino. E il piccolo Carlo viene richiesto, perché è un imbianchino che sa inventare pitture decorative. Ha 18 anni quando si iscrive a un corso di pittura per corrispondenza, un corso molto serio. Poi scoppia la Seconda guerra mondiale, Carlo finisce tra i pittori “mascheratori” (coloro che dipingono mascherature per ingannare l’aviazione nemica); dopo l’8 settembre viene fatto prigioniero dai Tedeschi che lo deportano nei campi di concentramento, in Austria. Finita la guerra, Carlo può ritornare a Godenzo, dove non c’è ancora nulla da godere. Fa il contadino-imbianchino e la sua malattia per la pittura è bersaglio di critiche e ironie. Ma lui non demorde. Studia la notte al lume di una lampadina di poche candele.
Del 1959 è la sua prima “personale”, un’esposizione quanto meno singolare. Carlo aveva conosciuto il padrone dell’Albergo Miralago di Molveno, che gli permise di fare in albergo una mostra, purché non piantasse un chiodo… Così il nostro contadino-imbianchino dopo una giornata di duro lavoro, prendeva la corriera e un pacchetto di disegni scorniciati (per le cornici mancavano i soldi…), giungeva in albergo e seminava i disegni su mobili e poltrone, intanto che gli ospiti giocavano a canasta. Alla fine riuscì a vendere gran parte dei disegni e anche a prezzo sostenuto (sapeva lui quanto gli erano costati…).
Cominciò pian piano a farsi conoscere e a fare mostre importanti, (espone a Trento, Bolzano, Torbole, Verona… scrivono di lui i critici). Nel 1977 è invitato al Museo nazionale di arti naives ”Cesare Zavattini” di Luzzara (Reggio Emilia) con un’antologica e una sala omaggio e la splendida presentazione di Renzo Margonari, uno dei maggiori storci dell’arte italiani.
Del 1993 è la poderosa monografia di 180 pagine in cui chi scrive analizza l’intera opera sartoriana. Alla fine dell’anno seguente e all’inizio del 1995, ecco la grande mostra a Palazzo Trentini di Trento, supportata da un prestigioso catalogo, con testi di Gabriella Belli, Danilo Eccher e del sottoscritto: una mostra visitata da 5mila persone.
Ma parliamo dunque delle crocifissioni. Cominciando col dire che il nostro artista per decenni fu definito da tutti (anche da critici importanti) un pittore “naif”. Personalmente (in cataloghi, monografie, articoli, presentazioni…), per 8 fondamentali ragioni che non sto qui a ripetere, per vent’anni ho demolito questa definizione: ora chi la volesse riprendere rischia la figura dello sprovveduto. Da ottobre a dicembre del 2002, lungo la Via Romana, nello spazio Archeologico Sotterraneo del Sas a Trento furono esposte 30 crocifissioni di Sartori (tutte quelle di cui fu trovata notizia), una mostra corredata da un mio catalogo. Era la prima volta che in quell’ambiente veniva presentata una mostra di pittura, peraltro in questo caso di suggestione irripetibile se si pensa che i cristiani crocifissi venivano esposti appunto lungo le vie romane.
Voglio dire qualcosa di tre di queste crocifissioni esposte. Del 1971 (olio su tela cm 90×100) è “Crocifissione”, da considerarsi a mio avviso uno dei capolavori sartoriani. In primo piano una Maddalena quasi abbracciata a Cristo; di schiena un montanaro con una zappa e una roncola, che ricorda l’icasticità di certe figure di Gino Pancheri. Sulla destra un militare in divisa con la “fiamma” sull’elmetto fuma con indifferenza; sullo sfondo una coppia di buoi, gli animali più tipici sartoriani, più emblematici, più simbolici, così come le mucche lo sono per Segantini. La drammaticità della scena è sottolineata dall’aggressività degli oggetti (il martello, la zappa, l’ascia, la roncola, il fucile). Da notare come il Cristo non sia inchiodato alle mani come tutti gli artisti, pittori e scultori hanno sempre fatto, ma ai polsi (come è stato dimostrato avvenivano le crocifissioni), poiché il palmo delle mani si sarebbe strappato. Del 1989 è la grande tela ”L’umanità alla luce della croce” (cm. 150×100), probabilmente da considerarsi il capolavoro assoluto tra le crocifissioni del nostro artista. Qui più che mai (come in altre tele) la croce allude all’Albero della Vita. Dal suo tronco centrale, che conserva la sua corteccia, si diparte in alto un ciuffo di rametti su cui è posato un uccellino (in ogni quadro di questo straordinario artista un animale non può mai mancare). Anche qui il Cristo con il corpo a forma di “X“ si tende in basso verso la donna, la Maddalena, contadina inginocchiata che mostra in primo piano le piante sformate dei piedi, figure e oggetti immersi nelle monocromie del rosso che io ho definito sartoriano, e che ho fatto l’ipotesi derivi dall’imprinting drammatico dall’antico incendio della sua casa.
Stupefacenti sono le sue difficilissime prospettive multiple (altro che naif!), mentre probabilmente unico nella storia della pittura è sulla destra il corvo (ritenuto uccello del malaugurio!), unico che tenti di aiutare Gesù crocifisso, tentando di schiodare un chiodo dalla croce.
A conclusione ho lasciato “Il Cristo degli emigranti”. La crocifissione più ampia di questo artista (due metri per un metro mezzo), collocata su una parete laterale della chiesa di Ranzo. Di norma le Crocifissioni sono dipinte su commissione e sono collocate nelle chiese negli edifici religiosi. Ebbene delle 30 crocifissioni di Sartori non una è collocata nei luoghi deputati, a conferma che le sue sono ritenute crocifissioni in qualche modo “eretiche”, alla base delle quali dipinge siringhe da droga, bicchieri di alcol svuotati… In questa, che Carlo ha donato al suo paese, il Cristo è collocato insolitamente in alto per dargli la massima visibilità: alla sua sinistra è rappresentata la vita del villaggio di una volta; alla sua destra la vita di adesso con la sua emigrazione. Ma la cosa più sorprendente (che può sfuggire se non si è allertati) è la capra ai piedi della croce. La capra è da sempre ritenuta il simbolo della lussuria, la femmina del demonio che ha zoccoli caprini: non può entrare in chiesa in un quadro d’arte sacra!”
”Perché hai dipinto una capra ai piedi della croce?” gli chiesi un volta: ”Perchè Ranzo era un paese di capre, tante quante le persone… Ci fu una lunga discussione tra il parroco, don Cesare Serafini, e il rappresentate della Curia. Alla fine prevalse il buonsenso: ma anche, diciamolo, il tornaconto…
La Crocifissione nell’Arte
La crocifissione, come tema centrale dell’arte cristiana, ha radici profonde che risalgono ai primi secoli del Cristianesimo. Inizialmente, le rappresentazioni erano stilizzate e simboliche, presenti in catacombe e mausolei, per nascondere il significato profondo del sacrificio di Cristo. Con l’arte medievale, la crocifissione divenne un soggetto prevalente, con una crescente attenzione ai dettagli e alla sofferenza di Cristo, come evidenziato nei lavori di artisti come Giotto e Cimabue. Nel Rinascimento, artisti come Leonardo e Michelangelo reinterpretarono la crocifissione, enfatizzando il realismo e la dimensione umana della sofferenza. Con l’arte barocca, figure come Caravaggio accentuarono il dramma e l’emozione attraverso l’uso di chiaroscuro. Nel XIX e XX secolo, la crocifissione fu reinterpretata da artisti moderni e contemporanei, come Salvador Dalí (suo il Corpus Hypercubus, nella foto) e Marc Chagall, che la usarono per esplorare temi esistenziali, dimostrando la sua continua rilevanza e capacità di evoluzione.