Ho chiesto di vederla signor giudice, perché ci ho pensato in questi mesi stretti, ci ho pensato tanto e ho deciso di confessare: sono un ciclista signor giudice, non so se lei abbia la contezza di cosa voglia dire essere un ciclista, di quale colpa sia.
Io per me riconosco appieno la gravità del mio comportamento e vorrei qui con questa mia piena e sincera confessione non già cercare giustificazioni, che non esistono, ma mettere a nudo la mia anima e quindi invocare la clemenza della corte. Spero non le sia di disturbo se parto da molto lontano, dal cuore degli anni Sessanta del ’900. Sono un ciclista perché lo sono stato sin da bambino; un ciclista senza bicicletta. Non vorrei apparirle patetico ma per me in quegli anni avere una bicicletta era solo un sogno lontanissimo, eppure la mia anima era già corrotta dall’infernale mezzo. Avevo allora il cerchio di una ruota con attaccato un filo di ferro e correvo in salita e correvo accanto a Eddy e a Felice; ed ero Eddy ed ero Felice e parlavo con loro e scattavo davanti a loro e mi alzavo in piedi sui pedali (che non avevo) e loro rimanevano indietro e li vedevo sempre più piccoli sino a scomparire e rimanevo solo. In fuga. E la strada era il Pordoi e la strada erano i tornanti dello Stelvio di cui certe sere mi parlava mio padre che ci aveva lavorato “sullo Stelvio”. E anche la neve di quelle primavere fredde e luminose era la neve dei passi. E io ero il campione del Giro d’Italia, quello che alla fine non vinceva mai, ma che in salita volava come Fuente, ecco, io ero José Manuel Fuente. Sono arrivato così in fondo alla depravazione, signor giudice, da farmi comprare da una madre troppo indulgente (imparate a dire di no ai vostri figli prima che diventino ciclisti) una maglia di lanetta rosa, sì non inorridisca signor giudice, una maglia di colore rosa. E a scuola andavo con quella maglia e rideva la maestra “un maschietto con una maglia rosa, non si può vedere” e mi lasciava fuori dalla foto di classe, che un maschietto con la maglia rosa sfigurava. E mi è rimasto l’amore per il colore rosa.
Sono trascorsi gli anni della scuola con la maestra che rideva di me, ma io ho continuato a correre con la mia ruota e il filo di ferro e ho continuato a indossare magliette color rosa fino a quel giorno in cui mia madre mi chiese: “Cosa vorresti per il tuo Ottimo all’esame?” Ricordo ho soffiato con un filo di fiato: “La Bicicletta”.
Nei pensieri di mia madre doveva essere una biciletta comune, da uomo o al massimo da cross, usata e da poche lire, ma io sapevo cosa volevo e l’avevo detto al signore a cui mia madre aveva dato l’incarico di procurami una biciletta, una qualsiasi aveva detto.
È così che entrò nella mia famiglia la prima bicicletta da corsa mai vista, con il cambio Campagnolo a sette velocità e il manubrio ricurvo e le ruote sottili e io piangevo di gioia e mia madre piangeva e non sapeva a quale santo votarsi per rimandare indietro quell’aggeggio troppo costoso, che non poteva pagare. L’uomo della bicicletta tagliò corto: “Questa è quella che serve al ragazzo e per pagare si paga un po’ alla volta e poi ti devo i soldi del latte e anche di quelle galline troppo vecchie, ma così buone per fare brodo, e il gallo anche”. La mia prima biciletta, vostro onore, pagata con latte e galline vecchie.
È così che sono diventato un ciclista vero, per colpa del latte e del brodo di gallina.
Oggi sono un ciclista, perché in pieno inverno metto addosso tutto quello che trovo per andare in bicicletta. Oggi sono un ciclista, perché ho imparato a soffrire in silenzio per risparmiare il fiato e a farmi coraggio ai piedi di ogni salita. Oggi sono un ciclista, perché respiro il gas di scarico dei camion che mi sfiorano a ottanta all’ora facendomi sbandare e tremare; sono un ciclista perché, pur rispettando pedissequamente il codice della strada, sopporto l’odio di tanti che non lo rispettano e che sfrecciano a cento all’ora dove il limite è di cinquanta, sono un ciclista per quella volta che un signore mi costrinse, senza motivo, contro il guardrail facendomi volare oltre la siepe andandosene poi senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Sono un ciclista perché un giorno ho visto morire un mio compagno ciclista travolto da una macchina che sorpassava una macchina in sorpasso (non è complicato, provi a immaginarselo). Sono un ciclista perché ho pianto tutte le mie lacrime per la morte di due campioni ciclisti, uno morto di amarezza, l’altro di strada.
Sono un ciclista signor giudice perché ogni volta che monto in bicicletta sono ancora quel bambino che correva dietro al cerchio di una ruota assieme a Eddy Merckx e Felice Gimondi. La mia imperdonabile colpa.