
Non è semplice descrivere la mia vita in poche pagine. Sono nato in una remota valle del Trentino, uno di quei luoghi che vengono romanticizzati da chi abita lontano da qui e odiati da chi ci vive dentro. Io ero tra quest’ultimi. Il sole che non esiste, il freddo glaciale senza neve, le malattie, il vero sporco. Era un duro resistere a tutta quella serie di agenti esterni contro i quali ci si poteva fare poco o niente. Si, d’accordo caro il mio avveduto lettore, sarei potuto andare via. Gli antichi latini hanno giustamente asserito che i viandanti per mare mutano il cielo, non il loro animo. Quindi, riprendendo un poeta contemporaneo, scappare non ci serve a niente.
A questi fattori esterni, sui quali ora siamo tutti concordi essere immutabili, si aggiungono fattori interni, o forse definibili soggettivi, non trascurabili. Il recinto di appartenenza mi è sempre stato troppo stretto. Non parlo tanto di grandezza come termine fisico, quanto invece di grandezza in cui fosse possibile immagazzinare pensieri e congetture non proprie del luogo di appartenenza. Il recinto era sovente aperto, ma ciò che si celava al suo interno rendeva totalmente inutile ogni scorrazzata, allegorica e non.
Infine è arrivato anche il giorno della mia dipartita. Si sa, è una conseguenza inevitabile di ognuno. La finitudine è un problema che attanaglia tutti dall’alba dei tempi, uomini e porci. E nessuno può sceglierlo. O meglio, gli uomini si illudono di poterlo fare, nonostante si crei la folle incoerenza di voler proibire o meno ad altri uguali esseri la loro dipartita. La follia in realtà si espande quando, oltre a voler proibire la dipartita di un essere terzo e diverso dal sè, ci si arroga il diritto di decidere il momento e la modalità della dipartita di altri. Senza chiedersi se quest’ultimi fossero pronti. Io non lo ero. Per quanto sia vero che pronti non lo si può essere mai, io sento che avrei avuto ancora molto da dare, soprattutto a me stesso. Ma questo non è un trattato filosofico, è solo la mia storia, e lo spazio che mi è stato dato a disposizione, anche per questo ultimo scampolo di non vita, sta per finire.
Quando sono arrivato nell’etere ho visto il mondo e i suoi abitanti da una diversa prospettiva. Mi facevano tenerezza nel loro scorrazzare e nel loro convincersi che il loro scorrazzare avesse un senso chiaro e compiuto. Mi sono poi avvicinato e concentrato sul luogo che ho lasciato e che un tempo non troppo lontano chiamavo “casa”, mio malgrado. Ho visto la mia macellazione e il mio corpo diventare delle succulente “luganeghe”. Non sono contrario a sacrificarmi per qualcosa di nobile, mi sarebbe solo piaciuto esserne io il mandante. Sono poi venuto a sapere dal giornale che la mia carne era contaminata e che avrebbero dovuto ritirarla dal mercato. Quello che mi ha annientato definitivamente non è stato che il mio sacrificio si sia rivelato totalmente vano. No, direi che non è tanto quello. Bensì il vedere come le persone si sono stupite e quasi inorridite per questa cosa, provando ad addurre la colpa alle condizioni dell’allevamento o a qualche fantasioso parassita. No, cari miei. Io sono infetto perchè ho vissuto con voi, ho mangiato quello che mangiavate voi. Sono solo il frutto malato della vostra esistenza infetta, nient’altro.
La cronaca: Rischio microbiologico
Il Ministero della Salute ha emesso un richiamo per un lotto di luganega prodotta in Valsugana, dopo la rilevazione del batterio della salmonella. Il provvedimento riguarda anche due lotti di crauti biologici conditi, prodotti da un’azienda agricola di Mori. Le autorità raccomandano ai consumatori di non utilizzare i prodotti indicati per il rischio microbiologico legato alla presenza del batterio.