L’occhio degli adulti

“Margini” di Niccolò Falsetti, “Saint Omer” di Alice Diop, “Un monde” di Laura Wandel. Tre dei film di finzione più interessanti usciti negli ultimi mesi nelle sale cinematografiche italiane sono esordi (totali o parziali), capaci di imprimersi nella memoria degli spettatori anche e soprattutto per le innovative soluzioni narrative. Per chi dice che il cinema sia un’arte morta, superata, un po’ sempre uguale a se stessa, uno smacco. 

In particolare “Un monde”, uscito poi col titolo internazionale “Playground” e in Italia con la – come al solito – poco calzante traduzione di “Il patto del silenzio”, è un’opera unica, fine, delicata. Vincitore del premio Un certain regard al Festival di Cannes nel 2021, il lungometraggio trova distribuzione nel nostro Paese solo ora, due anni dopo, grazie a Wanted. Centro della vicenda, la piccola Nora (interpretata da una tanto giovane quanto magistrale Maya Vanderbeque), una bambina di sette anni, testimone di un atto di bullismo, la cui vittima è suo fratello maggiore Abel. Sebbene Nora desideri informare gli adulti dell’accaduto, Abel la fermerà, costringendola alla promessa di non raccontare nulla a nessuno. Nel momento in cui però la bambina cederà al suo istinto, parlando col padre e lasciando che la notizia si diffonda a scuola, toccherà anche a lei passare sotto le “grinfie” dei bulli. 

Se “Margini” giocava su stacchi narrativi improvvisati e “Saint Omer” sullo spaesamento delle voci fuori campo contrapposte a volti attoniti e smarriti, “Un monde” trova la sua potenza nell’abbassamento dello sguardo alla “misura di bambino”, non più inteso in senso figurato. 

La macchina da presa della regista belga, infatti, osserva il mondo letteralmente dall’altezza di una settenne. Il risultato è uno sguardo tanto potente quanto immersivo: l’universo dei bambini è chiuso agli adulti, è avulso, ripiegato su se stesso un po’ per volontà e un po’ per necessità. E il quadro che ne emerge è impietoso: i “grandi”, sebbene impieghino tutta la loro buona volontà, sebbene presenti, sebbene attenti, di fatto risultano sempre concentrati sul proprio ruolo sociale, gerarchico, educativo. Sono insegnanti e sono genitori che cercano soluzioni (anche se spesso inefficaci poiché tardive) e che si prodigano per comprendere, ma che restano sempre, inevitabilmente “al di fuori”. A loro non è dato comprendere l’essenziale, i loro occhi sono – di nuovo anche letteralmente – troppo in alto, e il loro sguardo, per quanto possa direzionarsi verso il basso, si trova ad un’altra altezza, altrove. Resta così, quaggiù, dove lo spettatore è immerso, un mondo di bambini che se la cavano da soli, che districano i nodi delle pressioni, delle interazioni, delle relazioni sociali nate a scuola e nel “campo di gioco” nel migliore dei modi possibile, una micro-società in tutto e per tutto reale. 

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.