Luca Mercalli: “Un voto a quel che si sta facendo? Direi 2!”

ph. sito ufficiale e pagina facebook

Abbiamo incontrato Luca Mercalli durante l’incontro “Cambiamenti climatici e ambientali: quali prospettive per la montagna?”, tenutosi al Parco Asburgico di Levico il 13 luglio scorso.

Professor Mercalli, la zona Alpina si sta riscaldando molto velocemente, come ha dimostrato recentemente, purtroppo, anche la tragedia della Marmolada. Che cosa dobbiamo aspettarci, nei prossimi anni, anche in montagna?

Tutto il Mediterraneo è una zona particolarmente sensibile al riscaldamento globale. Le Alpi ovviamente le consideriamo coronamento del Mediterraneo. È una zona quindi che si riscalderà di più rispetto alla media globale, ed è un’area geografica che purtroppo ha tutti i problemi possibili e immaginabili del rischio climatico, forse ad eccezione dei grandi uragani tropicali. Sono l’unico fenomeno non atteso nel Mediterraneo, anche se piccoli uragani si cominciano a vedere. In sostanza, dai ghiacciai che scompaiono sulle Alpi agli incendi, alla siccità, l’aumento del livello del mare per la fusione dei grandi ghiacciai della Groenlandia – e ovviamente l’Italia rischia poiché ha 8.000 km di coste – a eventi estremi in aumento e ondate di caldo africano direi che non ci manca veramente nulla. 

A proposito di caldo estremo e scioglimento dei ghiacci: quanto stanno male i ghiacciai sulle Alpi?

Lo stato dei nostri ghiacciai è di grande sofferenza. Alcuni si sono estinti, dove c’era ghiaccio oggi abbiamo una pietraia. Il 60% della superficie di ghiaccio alpino si è ridotto del 60% in un secolo. Da qui al 2050 avremo una totale scomparsa dei ghiacciai alpini, eccetto forse quelli sopra i 4000 metri. Anche se fermassimo ora la produzione di CO2 sarebbero destinati a sparire. In Marmolada non c’erano segni che potevano far presagire cosa sarebbe accaduto.

Non potevamo prevederlo…, e che cosa possiamo fare allora, a parte, naturalmente, cercare di ridurre in modo drastico le nostre emissioni?

In realtà, l’Italia conta poco dal punto di vista delle emissioni, perché vale circa il 2% – e questo non vuol dire, ovviamente, che ognuno di noi non debba fare la propria parte – dobbiamo però anche, seriamente, prendere in considerazione le strategie di adattamento.

A che punto siamo messi a livelli di piani di adattamento, appunto, anche in montagna?

L’adattamento è strategico, lo vediamo con una siccità come quella di quest’anno. Adattamento vuol dire ad esempio progettare un uso più intelligente dell’acqua, cosa che non si fa in emergenza, si fa con respiri di decenni. Abbiamo poi il problema dell’aumento del livello del mare, Venezia e la laguna e il delta del Po finiranno sott’acqua, ma sono già in crisi, con l’aumento del cuneo salino che penetra per oltre 30 km nell’entro terra. Questo è un progetto che deve interessare da adesso fino alla fine del secolo. Poi ovviamente ci sono adattamenti più locali che riguardano l’agricoltura, la formazione delle persone alla protezione civile, perché di fronte agli eventi estremi manca la preparazione. A livello di infrastrutture invece occorre attrezzarsi con un respiro decennale. Il piano di adattamento ai cambiamenti climatici l’Italia in realtà ce l’ha già, ma è in un cassetto di qualche ministero dal 2014.

Anche perché c’è ancora una visione che resiste ad un’accettazione del problema dei cambiamenti climatici, nonostante l’evidenza attuale…

Certo, perché si trova sempre qualsiasi alibi possibile e immaginabile per non prendersi delle responsabilità, perché non si vuole cambiare e rinunciare a nulla del proprio stile di vita. E questo purtroppo ci fa perdere del tempo prezioso.

Ecco, anche salire in montagna, strategia di cui lei è protagonista diretto e che racconta nel suo ultimo libro, è una forma di adattamento, per lo meno al riscaldamento globale. Come poterlo fare però senza snaturare l’identità, il paesaggio e l’ambiente del territorio montano?

Certo, è una forma di adattamento, io l’ho praticata. Ovviamente non è per tutti. La montagna non ha delle dimensioni in grado di contenere tutta la popolazione delle pianure e delle città, né potrebbe farlo, né tutte le persone vogliono adattarsi in questo modo, ma rispetto alle precauzioni da prendere per non snaturare l’ambiente alpino le regole sono molto semplici, non c’è bisogno di una legge lunga 23 pagine, basta un articolo di una riga: si ricostruisce o si ristruttura solo l’esistente e non si fabbrica nemmeno un metro quadrato di cemento in più. Questo basterebbe per recuperare soprattutto tutti quei villaggi nelle zone marginali e disabitate che si sono spopolati negli ultimi 50 anni. Qui siamo in Trentino, una zona turistica, ma c’è un Appennino, ma anche una gran parte di Alpi, ad esempio il bellunese o le Alpi piemontesi, soggetto a spopolamento. Insomma ci sono tanti luoghi che oggi offrirebbero una chance per una vita diversa, e lo smart working aiuta, è un’opportunità per riabitare queste zone senza sentirsi isolati e potendo portare nuove professioni e dall’altro lato è un modo per avere ancora un fresco gratuito senza aria condizionata.

Per chi in montagna ci vive e vive di montagna, come conciliare gli aspetti turistici, importante fonte economica per le comunità montane, e il rispetto per un ecosistema sempre più fragile, come abbiamo visto?

È da 30 anni che parliamo di slow tourism, di un turismo intelligente più distribuito in tutte le stagioni, di un turismo che non sia fondato esclusivamente sullo sci in un certo tipo di montagna. Pensiamo ad esempio che nevica sempre di meno, occorre ricorrere alla neve programmata che richiede un sacco di soldi e di energia. Cerchiamo di orientarci verso il piano culturale. Alla fine le persone fanno anche ciò che la società e la cultura dominante propone. Non è obbligatorio fare turismo come lo stiamo facendo adesso. Si può fare una transizione verso un turismo che trae dai territori tutto ciò che è trascurato, gli aspetti culturali, letterari, gastronomici, dell’escursionismo e della conoscenza del territorio anche da un punto di vista naturalistico. Tutte queste cose ci permetterebbero di sostituire la monocultura dello sci, anche d’inverno, e di portare una distribuzione su tutti i 12 mesi. 

A proposito di ripopolamento della montagna, in questa sua nuova fase di vita in montagna, anche a una quota piuttosto elevata, che cosa le ha dato a livello di qualità della vita, in termini di arricchimento e in che cosa ha trovato magari difficoltà?

Io sto in Alta Valle di Susa a 1650 metri, ho scelto di proposito una quota un po’ spinta proprio per fare da apripista. Sicuramente da un punto di vista della scelta come geografia e natura, essendo un territorio che conoscevo e dove lavoro, trovo tutto perfetto, invece da un punto di vista istituzionale, trovo che la burocrazia sia il nemico più grande che abbiamo in Italia per fare questo tipo di operazione, a volte ti fa passare la voglia. 

Per concludere, rispetto a tutti questi scenari, se dovesse dare un voto da uno a dieci al lavoro che si sta facendo, a livello globale, per contenere l’aumento di temperatura non dico entro i +1,5° ma per lo meno entro i +2°, che voto ci darebbe?

Un voto molto basso, direi 2.

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Pubblicato da Silvia Tarter

Bibliofila, montanara, amante della natura, sono nata tra le dolci colline avisiane, in un mondo profumato di vino rosso. La vita mi ha infine portata a Milano, dove ogni giorno riverso la mia passione di letterata senza speranza ai ragazzi di una scuola professionale, costretti a sopportare i miei voli pindarici sulla poesia e le mie messe in scena storiche dei personaggi del Risorgimento e quant'altro. Appena posso però, mi perdo in lunghissimi girovagare in bicicletta tra le abbazie e i campi silenziosi del Parco Agricolo Sud, o mi rifugio sulle mie montagne per qualche bella salita in vetta. Perché la vista più bella, come diceva Walter Bonatti, arriva dopo la salita più difficile.