I due dischi dei Pink Floyd che porto nel cuore sono Atom Heart Mother e The Wall, e non me ne vogliano gli adoratori di The Dark Side of the Moon, né quelli di Syd Barrett.
The Wall è un lungo, sinistro viaggio psichico, che utilizza una metafora potentissima nella sua semplicità, quella del muro, e che ebbe anche la “coda” di un film memorabile girato da Alan Parker (con Bob Geldof nelle vesti del protagonista). Ma Atom Heart Mother, pubblicato nove anni prima, nel 1970, è una di quelle incisioni che hanno davvero aperto i confini del pop-rock, rispetto alle sue matrici blues e presleyane. Eppure, l’album è stato disconosciuto dai Floyd, in particolare dai due leader David Gilmour e Roger Waters. Lo hanno definito un disco non riuscito, un’accozzaglia di idee, una merda. Evidentemente, questo è un caso da manuale di un’opera detestata dai suoi creatori, ma amata dai fans, quantomeno da una nutrita pattuglia di essi.
La facciata A è la quintessenza del pop sinfonico. Si tratta di una lunga suite di 24 minuti, in parte per coro e orchestra, condita dagli strumenti della band e da rumori di vario genere. A mettere insieme il tutto venne chiamato un compositore “alternativo”, Ron Geesin, assieme a orchestrali e coristi classici di spicco della Londra dell’epoca. Il risultato può sembrare imbarazzante, nel suo voler essere a tutti i costi sperimentale. Per chi scrive, è semplicemente fantastico. Nella seconda facciata si cambia registro. Qui troviamo due ballate, If e Fat Old Sun, una canzone di Wright quasi-barrettiana, Summer 68, e un’altra suite, più corta di quella che dà il titolo all’album, di nuovo intervallata da rumori d’ambiente (relativi alla “colazione psichedelica” di Alan, un roadie della band). Un degno lato B.
La foto di copertina, di proposito invece non-psichedelica, è quella di una mucca di razza frisona, scattata nella campagna intorno a Londra da Storm Thorgerson della Hipgnosis. Si tratta di uno dei primi esempi di copertina senza il nome della band (accadde anche per il “IV” dei Led Zeppelin). Il titolo è ripreso da un articolo di giornale, che parlava di una donna a cui avevano impiantato un peace-maker “atomico”.