Massimo Rizzante: letteratura e futuro

Nel cuore della città di Trento, il Prof. Massimo Rizzante, ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea, ha dedicato oltre trent’anni alla crescita culturale dell’ateneo, dirigendo dal 2006 il «Seminario Internazionale sul Romanzo» (SIR). La sua esperienza nel mondo accademico è intrinsecamente legata al territorio, con un forte desiderio di ispirare gli studenti a un approccio più intraprendente e critico nei confronti della letteratura. Rizzante esplora anche le trasformazioni nel panorama letterario italiano, dall’importanza del lettore al ruolo cruciale della critica, in un’epoca segnata dall’emergere dell’intelligenza artificiale. La sua riflessione invita a considerare come la letteratura e l’umanesimo possano rispondere alle sfide del presente, mantenendo viva la ricerca dell’essenziale nel dialogo con il mondo contemporaneo.

Professore, lei lavora qui da molto tempo. Qual è il suo rapporto con Trento e con l’università della città?  

Sono trent’anni che lavoro qui. Trento è un polo universitario più ricco di altri, per quanto conservi alcuni difetti dell’accademia italiana. Pur non avendo la tradizione di molti altri atenei italiani e stranieri, ha sempre offerto molte opportunità agli studenti e ai professori che vi studiano e vi insegnano. Alla fine, credo di essere rimasto perché il mio Dipartimento di Lettere e Filosofia mi ha sempre permesso di essere libero e di organizzare incontri ed eventi, in particolare il Seminario Internazionale sul Romanzo (SIR), grazie al quale, sin dal 2006, io e miei collaboratori siamo riusciti a portare a Trento praticamente tutti gli scrittori italiani di un qualche valore e molti scrittori e critici stranieri. L’ateneo trentino è molto aperto. I nostri dottorati, ad esempio, ricevono ogni anno centinaia di richieste da tutta Italia.

Essendo veneziano, il salto all’inizio per me non è stato semplice. Non sono mai riuscito, infatti, a stabilirmi in città in maniera definitiva. Ho preferito vivere a Verona, dove risiedo da una ventina d’anni. Bisogna dire, tuttavia, che negli ultimi dieci anni la città di Trento, grazie alla presenza degli studenti, è andata vivacizzandosi. Negli anni Novanta le serate erano di sicuro meno divertenti. 

Mi chiedo se la città di Trento abbia mai accettato l’università e la vita studentesca. Forse Trento è una città universitaria, malgrado non abbia accettato pienamente di esserlo.

Il suo rapporto con l’insegnamento, invece? Questa parte della carriera accademica è per lei centrale?

Sì, lo è. Il momento in cui incontro gli studenti è il più importante del mio lavoro, sebbene il carico burocratico sia molto aumentato. Anche la mia attività di ricerca è spesso funzionale al momento in cui preparo i miei seminari per i dottorandi. La didattica è centrale, anche se non è semplice instaurare un dialogo con gli studenti. Mi piacerebbe che fossero più intraprendenti, più curiosi, più coraggiosi nel porre domande e nell’interrogarsi. Per questo motivo cerco sempre di trasformare le lezioni in seminari. Non sempre ci riesco, ma ci provo.

Credo che ogni professore, quando entra in classe, dovrebbe dimenticarsi di essere un intellettuale, un poeta, uno scrittore o uno studioso di fama internazionale e mettersi al servizio del ruolo che ricopre: quello di qualcuno che deve interessare con ogni mezzo la platea che ha di fronte. Con ogni mezzo significa con tutto l’entusiasmo possibile.

Una domanda di “critica”: perché si consideri un’opera una vera opera d’arte, c’è bisogno del riscontro del fruitore? Oppure un romanzo, per esempio, ha dignità anche già dal momento in cui viene scritto, o letto da pochi, senza una grande pubblicazione? 

Oggi siamo in una situazione paradossale: la preoccupazione per la distribuzione dell’opera viene prima della sua produzione. Con tutte le conseguenze che ciò comporta. È chiaro che un’opera non esiste senza il lettore, proprio come uno spartito musicale non esiste se non viene eseguito. Il vero problema degli ultimi quarant’anni, tuttavia, non riguarda tanto le opere letterarie, quanto i lettori, che hanno smesso rapidamente di riconoscere un libro come opera d’arte.

Dalla seconda metà degli anni Ottanta è venuto meno questo, diciamo, “talento” nel riconoscere l’opera. 

Come è potuto accadere? 

Difficile dirlo. La mia generazione, nata nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, sembra essere stata l’ultima che a undici, dodici anni sapeva riconoscere in modo spontaneo, anche senza una particolare formazione e provenendo da famiglie di estrazioni diverse, la qualità di un’opera letteraria. Sulla carta questa capacità sarebbe dovuta aumentare nei decenni successivi in proporzione alla maggiore scolarizzazione: nel frattempo, infatti, le scuole medie superiori e l’università sono diventate di massa. Ci si sarebbe aspettati una larga diffusione della cultura letteraria e, invece, è successo il contrario. Non trovando più in modo spontaneo nella letteratura i modelli per le loro esistenze, gli studenti hanno iniziato a cercare in altre direzioni. 

Aggiungerei questo: nel corso di quasi tutto il XX secolo era il libro per pochi a diventare con il tempo un classico. Oggi, invece, autori, case editrici e lettori desiderano subito l’opera per tutti, senza attendere che essa diventi gradualmente accessibile e riconosciuta.

Nel suo ultimo saggio, “L’albero del romanzo”, lei ritorna sulla figura del critico letterario, cioè una persona capace di riflettere intimamente sul processo creativo e sul risultato. La sua è una chiamata alle armi o è ormai una riflessione disillusa? C’è ancora spazio per la critica?

I saggi letterari sono merce rara, ormai. Per lo più si pubblicano studi e manuali di tipo accademico destinati a essere letti dagli studenti. Non potendo per costituzione fisica e mentale scrivere manuali, penso che continuerò a scrivere saggi letterari. A mio modo di vedere non c’è un altro modo di fare critica. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, fino alla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso, la critica, trasformandosi in teoria, si è illusa di diventare una “scienza”, ma il pensiero critico è di natura saggistica e non può permettersi un metodo. Non c’è altro da fare: devi trovare un modo di avvicinarti personalmente a un romanzo. Devi scommettere e rischiare. E ogni volta la strada è diversa. 

Dopo la fine dell’illusione teorica non abbiamo avuto che i dettami politico-ideologici dei cultural studies provenienti per lo più dai campus americani. Negli ultimi trent’anni l’Europa, che era stata per quasi tutto il XX secolo la guida culturale del mondo, non è riuscita a produrre un vero antidoto a questa ondata. 

Lei è stato per decenni amico di Milan Kundera, per il quale ha anche tradotto in italiano gli ultimi romanzi; ha percepito, nel rapporto con lui, una grandezza umana, aldilà di quella letteraria?

Sì, certo. Io dico sempre ai miei colleghi: “La grandezza bisogna toccarla con mano; poi, se sei fortunato, puoi diventare qualcuno anche tu”. Succede davvero così e, se non succede, ti si aprono due strade: diventi un triste esegeta, o un epigono felice. Inutile dire che oggi intorno a me di epigoni felici non c’è quasi traccia. Di eredi originali del passato, voglio dire.

Per quanto riguarda Milan Kundera, ho avuto la fortuna di toccare con mano una certa grandezza e, grazie a trent’anni di frequentazione, prima da studente, poi come collaboratore della rivista L’Atelier du Roman, poi come traduttore e infine come amico, ho provato ad ereditarla. 

Quasi sempre la grandezza non ha nulla a che vedere con la presunzione e ammetto di aver trovato più umiltà negli scrittori dell’Europa centrale che in quelli italiani e francesi. I maestri, poi, non ti dicono mai quello che devi fare. Da Kundera ho imparato molte cose attraverso i nostri dialoghi, pieni di battute e storielle. Credo che scegliesse le persone da frequentare soprattutto in base al loro tasso di ironia e di umorismo. Quando gli mandavo i miei saggi da leggere, non li correggeva: tagliava e tagliava… Così capivo cosa era essenziale. Bisogna sempre giungere all’essenziale: questo, direi, è il grande insegnamento che mi ha lasciato.

I premi letterari italiani hanno un valore per lei? Una ragione d’essere?

L’unico premio in Italia che fa vendere più copie è il Premio Strega. Tutti gli altri di fatto sono premi alla carriera, o hanno dinamiche difficili da comprendere, se non attraverso i giochi di potere delle case editrici. I premi sono tanti e, negli ultimi trent’anni, hanno sicuramente perso gran parte del valore che avevano. Di recente mi è capitato di leggere l’intero albo dei vincitori del Premio Strega. Dal 1947 al 1993 si trovano più o meno tutti i nomi importanti della letteratura italiana della seconda metà del XX secolo. 

Poi le cose sono cambiate… 

Già. A volte ho pensato che questo cambio fosse dovuto alla scomparsa, spesso prematura, di molti scrittori importanti. Ricordo che alla fine dei miei studi universitari, nella seconda metà degli anni Ottanta, mi sono accorto che in giro non c’era quasi più nessuno. All’inizio degli anni Novanta i miei colleghi più giovani si sono ritrovati senza guide, senza punti di riferimento, senza maestri. Sono sempre i maestri, infatti, a riconoscere gli allievi. E se i maestri non ci sono…

Stiamo assistendo alla veloce diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Che conseguenze sta avendo ed avrà sul mondo delle scienze umanistiche?

Non sono un esperto in Intelligenza Artificiale. Tuttavia, l’umanista, nella nostra epoca della tecno-scienza, non può non confrontarsi con il bene e il male che essa comporta. Credo che ogni artista, ogni intellettuale, ogni scrittore, per quanto preso dai suoi obblighi pubblicitari, sia in grado di sentire il pericolo che la specie umana sta attraversando.

Ci sono due aspetti della tecno-scienza, entrambi degni di nota. Da un lato, essa aspira ad alterare organicamente la specie umana, ritenendo che in breve tempo quest’ultima non sarà più all’altezza dei propri prodotti tecnologici. Dall’altro, essa è vista come un’utile estensione in grado di rispondere meglio alle nostre eterne domande. Entrambi queste spinte ci conducono verso un confronto pieno di insidie con la “macchina”.   

Un umanista del XXI secolo che può fare? Difendere l’umano, naturalmente. Ma la frontiera dell’umano non è stabile. Per 2500 anni la nostra civiltà si è interrogata sulla differenza tra l’essere umano e l’animale. Ha dato diverse risposte. Non poteva essere che così, dato che quella frontiera è mobile, non definibile una volta per tutte. Ora di frontiera ce n’è un’altra ed è storicamente inedita: quella tra l’essere umano e la “macchina”. Credo che anche questa non potrà essere definita una volta per tutte.

Domande lampo

Il libro che sta leggendo? ”Ombre sull’Hudson”, di Isaac B. Singer.

Il suo colore preferito?  Viola.   

Il piatto che ama di più? Baccalà mantecato.

Il film del cuore? Blade Runner.

La squadra di calcio che tifa? Inter.

L’automobile preferita? Mercedes CLA 200.

Il viaggio che non è ancora riuscito a fare? India.

Ha animali domestici? No.

Cantante, compositore o gruppo preferito? György Ligeti e i Genesis.

Se non avesse fatto quello che ha fatto, cosa avrebbe voluto fare? Giocatore d’azzardo. Musicista jazz.

La cosa che le fa più paura? A sessant’anni di che cosa posso aver paura… 

Il difetto che negli altri le fa più paura? Il narcisismo.

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Pubblicato da Alessandro Zanoner

Nato a Trento nel 1993, insegnante di italiano, latino e storia nelle scuole superiori. Suonatore di strada con umili tentativi da cantautore e scrittore. Mi piacciono la montagne e il Mar Tirreno; viaggio con una buona frequenza, soprattutto in centro Italia. Un pomeriggio a Roma una volta all'anno, minimo. Pavese, Moravia ed Hermann Hesse i miei autori preferiti in narrativa. Per la musica De Gregori, Vinicio Capossela, Lucio Battisti e Giovanni Lindo Ferretti.