Non capita tutti i giorni di potersi sedere a conversare con una leonessa d’argento all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Se aggiungiamo che questo suo secondo lungometraggio “Vermiglio”, girato nel nostro Trentino è la pellicola che l’Italia ha scelto di candidare alla selezione degli Oscar come miglior film internazionale, l’emozione può giocare brutti scherzi, anche a un’appassionata cinefila.
Il film solandro della regista di Laives Maura Delpero ha avuto la meglio su altri 18 titoli, tra cui il favorito Parthenope di Paolo Sorrentino, nella riunione che si è svolta presso l’Anica del comitato di selezione e concorrerà quindi per la shortlist dei quindici migliori film internazionali selezionati dall’Academy, che sarà resa nota il 17 dicembre. L’annuncio delle nomination è previsto per il 17 gennaio, mentre la cerimonia degli Oscar si terrà il 2 marzo 2025.
Il film è la storia di una famiglia, il racconto di una dura quotidianità fra i prati della Val di Sole, durante il secondo conflitto mondiale. La sua forza risiede proprio nella descrizione reale di questo piccolo mondo antico, tra il profumo del bosco, l’odore del latte appena munto, le vecchie coperte di lana e la montagna, un microcosmo che affascina ma allo stesso tempo opprime.
Maura Delpero, qual è stata la sua principale fonte di ispirazione per rappresentare questo microcosmo?
La famiglia di mio papà è originaria di Vermiglio: una grande famiglia, dei figli del maestro del paese. Difatti questa è una figura chiave nel film – oggi non si dà l’importanza che merita al ruolo d’insegnante, ma una volta era considerata alla pari del sindaco ed era per tutti un importante punto di riferimento – ho attinto non solo ai miei ricordi personali e alle interviste alle mie zie, ma all’archivio fotografico del paese ed ai racconti dei suoi abitanti più anziani che hanno vissuto in quel periodo.
Lei nel film affronta direttamente il cambiamento culturale e linguistico e lo fa con il maestro Graziadei che insegna italiano ai ragazzi che parlano soltanto il dialetto. Cosa vuole dirci?
Ciò che fa lui è tentare di portare la bellezza della cultura a scuola: non per forza una contrapposizione tra italiano e dialetto, considerando il bilinguismo una grande ricchezza. Corregge l’italiano dei ragazzi a scuola, non a casa dove i suoi figli parlano dialetto. Ma più in generale la sua figura fa da padre anche agli alunni, poiché molti di loro hanno i genitori al fronte e rappresenta quindi un padre putativo per tutti.
Nel film si percepisce una tensione tra tradizione e modernità, un tema molto attuale. Come vede questa dinamica nel mondo contemporaneo e nelle lotte delle donne di oggi?
Credo che l’anno in cui è ambientato il film, con la fine del conflitto, rappresenti uno spartiacque tra il mondo antico e quello moderno, più vicino a noi. Nell’immagine delle tre sorelle, come in quella della madre si coglie l’influenza pesante di una società patriarcale, ma nello stesso tempo, una spinta di modernità che nel film si arriverà a recepire a causa di una necessità molto urgente, una tragedia: le grandi rivoluzioni nella storia arrivano per delle criticità profonde e portano sempre con sé moti di innovazione. Queste donne infatti iniziano a maturare nuove consapevolezze e curiosità: è interessante osservarle per vedere quel che eravamo, ciò che siamo e quello che sarebbe bello diventassimo.
Nel suo lavoro emerge un’attenzione particolare ai dettagli della vita quotidiana e a una rappresentazione naturale e autentica dei personaggi. È per questo che ha voluto nel film attori non professionisti?
In fase di scrittura ho un processo creativo di ascolto: una volta individuata la storia, il luogo, le tematiche che caratterizzano il film, cerco di seguire i personaggi. Mettendomi in una fase immaginaria di ascolto per vedere cosa fanno, dove vanno, come se li spiassi dal buco della serratura. Cerco quindi di non mettere loro in bocca parole che appartengono a me, ad una donna del 2024: in questo modo ho sempre preservato una naturalezza, poi riconosciuta, nei dialoghi e nelle situazioni. I miei personaggi sono liberi di essere ciò che sono, ovvero ciò che erano in quel momento.
Parto un anno prima, lavorando anche due ore al primo casting e già sulle scene del film, come se fosse un vero e proprio laboratorio. Per gli attori non professionisti ma emergenti, cerco di creare una familiarità – soprattutto in questo film – facendo divenire tutti parte di un contesto familiare, per far recepire allo spettatore la naturalezza delle azioni quotidiane: le sorelle in Vermiglio le ho fatte dormire nello stesso piccolo letto, perché era fondamentale che sapessero abbandonarsi le une alle altre come se lo facessero da sempre.
In questo modo si arriva preparati al set, come se ci fossimo già detti molto e si fosse cementata una fiducia importante tra me ed il cast ma anche fra gli attori stessi.
Nel suo primo film “Maternal”, ha esplorato la condizione di giovani madri in una comunità religiosa, mentre in “Vermiglio” si concentra su una famiglia rurale. Vede delle connessioni tra queste due rappresentazioni femminili?
Tutti noi proveniamo da ambienti limitanti, ma c’è chi ne è più vittima. E mi emoziona vedere e raccontare la vita di persone che, pur crescendo in situazioni difficili, riescono a compiere gesti straordinari nell’ordinario. Le donne che racconto vivono in contesti sociali fragili, in maternità complesse, ma riescono a lottare per il loro futuro e quello dei loro figli con grande dignità.
Il tema della maternità è ricorrente, ma perché fortunatamente se ne parla di più: mi trovo a raccontarlo spesso. Penso alla maternità di mia nonna, vissuta con più solitudine di oggi. Dobbiamo continuare a parlarne. Personalmente ho avuto la fortuna di avere gli strumenti per non sentirmi sola, a partire dalla scelta di un compagno con la coscienza della parità di genere. In passato ho avuto compagni che sapevo bene non sarebbero stati i padri dei miei figli proprio per la loro visione di una società poco paritaria.
Il cinema di oggi è spesso minacciato da semplificazioni narrative e dall’invasione dell’intelligenza artificiale. Come regista, come si posiziona rispetto a questi fenomeni? Qual è la sua visione di un cinema autentico in un’epoca dominata da tecnologie avanzate?
Il cinema come tutte le arti può rappresentare una sacca di resistenza dentro la nostra società. Credo nella cultura come salvezza. Purtroppo il cinema, essendo legato all’industria, è spesso soggetto alle logiche dell’intrattenimento immediato. I film che faccio io possono far paura, perché si teme che il pubblico abituato ad un certo ritmo e velocità possa annoiarsi. Io devo dire che per esperienza, a parte uno scoglio iniziale, ho trovato spettatori coinvolti e grati: esiste un pubblico che vuole riflettere e navigare all’interno del film attraverso la propria esperienza di vita, anziché essere guidato per mano come un bambino a colpi d’azione.
Questo avviene attraverso l’uso dei tempi di regia, la maggior parte dei colleghi tende a riempire con emozioni dirompenti per una sorta di horror vacui.
Io resisto ai dettami dei film d’azione, prediligendo un ritmo introspettivo. D’altra parte, far muovere freneticamente i personaggi di Vermiglio sarebbe stato un falso storico. Cerco sempre di essere attenta e filologica, resistendo a certi dettami dell’industria cinematografica.
Niente film d’azione, quindi, la prossima fatica?
È probabile che non lo sarà, ma devo capire prima che film voglio fare ed è l’idea del film che detta legge, mi guida e mi chiede poi i personaggi: “Voglio Isabelle Huppert o il bambino di Vermiglio?”
Ha ricevuto attestazioni di stima da attori di calibro che farebbero a gara per lavorare con Lei.
Non ho l’urgenza di lavorare con grandi attori ma se il film “me lo chiede” ne sarei onorata perché sono bravissimi.
L’influenza di Ermanno Olmi è stata riconosciuta nella sua opera. Quali altri registi l’hanno ispirata?
Non ho mai avuto a dire la verità ispirazioni dirette, semmai indirette. Ci sono autori che apprezzo molto, forse Olmi si è percepito perché lo amo. Sicuramente ha fatto parte della mia formazione, tra i contemporanei, Michael Haneke per il suo stile netto, pulito. Amo Vittorio De Sica e alcuni film di Ingmar Bergman sono qualcosa di magnifico.
Come considera lo strumento di produzione Film Commission in questo momento del cinema italiano?
È uno strumento utilissimo, tendenzialmente il primo ad entrare sul piano finanziario, dando coraggio ad altri fondi a collaborare.
Vi è un ritorno immediato e tangibile sul territorio: aiuta i film e i film aiutano il territorio.
È stato un passo fondamentale in questi ultimi anni per il cinema nostrano.
Mi tolga una curiosità, “Vermiglio” se fosse stato ambientato a Caldes o a Commezzadura, avrebbe avuto un altro titolo?
Non ci ho mai pensato! “Vermiglio” riecheggia anche il colore: rosso vermiglio. E “Caldes” allora il caldo, forse. Ma “Commezzadura”, come titolo, no: non funziona.
Martina: a “Vermiglio” è nata una stella
Ventisette anni, di Villa Lagarina, Martina Scrinzi è la giovane protagonista del film
Martina, come hai iniziato il tuo percorso di attrice?
A 16 anni col teatro, facendo dei corsi in Italia e all’estero. Mi sono formata lavorando, non ho mai frequentato l’accademia d’arte drammatica, ma grazie alla prima opportunità lavorativa offertami dal regista Michel Comte mi si è aperto un mondo: recitare, saper gestire il proprio corpo sul palco, imparare tutto ciò che vi è dietro la figura dell’attore, dai costumi alla burocrazia. Nel 2020 è arrivato il primo ruolo da protagonista in una produzione inglese. Ho poi recitato una piccola parte nel film Lubo (2023) di Giorgio Diritti, prima di incontrare Maura Delpero.
Riesci a rivederti sullo schermo?
Adesso faccio meno fatica, ma in alcune scene decisamente mi viene difficile, come per molti attori.
Com’è stata la preparazione per calarsi nel ruolo di Lucia Graziadei?
C’è molto di me, ho iniziato comunque a prepararmi un anno prima. Ho creato un bellissimo rapporto con le mie “sorelle”, con le quali, per prepararci al meglio sul set, ho dormito nello stesso letto per parecchi giorni. Con Giuseppe De Domenico, coprotagonista che interpreta Pietro, è nata una relazione professionale rara che mi ha insegnato tanto.
Com’è andata al Festival di Venezia?
Ero agitata, com’è normale che sia. Ma avevo vicino una squadra che mi ha sostenuto ed aiutato. Mi sono emozionata di più alla prima proiezione a Vermiglio. È l’aria di casa.
Con chi le piacerebbe lavorare prossimamente?
Da Martin Scorsese a Luca Guadagnino, Marco Tullio Giordana. O comunque con registi italiani emergenti: è importante fare rete tra giovani artisti. E vorrei avere la possibilità di continuare a coltivare la mia passione per il teatro.
Quale ruolo le piacerebbe interpretare?
L’opposto di Lucia, un ruolo come quello di Penelope Cruz in Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen, donna complessa, passionale e nevrotica che ha molto da comunicare.
Ora ho da poco un agente e sono alle prese con nuovi provini. (EA