Da qualche anno a Egna esiste un’azienda che per i propri abiti usa la AppleSkin, letteralmente: pelle mela. Si tratta di un particolare tessuto ottenuto dagli scarti delle mele. La realtà in questione si chiama One More – dall’inglese “uno in più” – ed è guidata da Helga Lazzarino, insieme al marito Elmar Stimpfl, ex sciatore della nazionale.
“Tutto è nato, infatti, dal mondo dello sport” ci spiega Helga, nel suo accogliente showroom. Nel 2018 hanno deciso di fare tesoro delle competenze cumulate in passato nel settore dell’abbigliamento tecnico sportivo invernale per creare un nuovo brand. Uno dei punti fermi era non utilizzare la pelliccia, la pelle o le piume degli animali per realizzare tessuti e imbottiture, bensì materiali alternativi. Si sono così imbattuti, un po’ per caso, nella cosiddetta AppleSkin, un materiale realizzato dalla Frumat di Bolzano presente sul mercato già dal 2015, ma inizialmente riservato per lo più a lavori di legatoria. Da qui, è nata l’idea di sperimentare questo materiale, ottenuto da un prodotto naturale e di recupero.
Ma come si ottiene la pelle mela?
Dalla raccolta e successiva lavorazione dei frutti, ogni anno vengono scartate tonnellate di semi, torsoli e bucce, le parti legnose della mela rimanenti dopo la spremitura che andrebbero poi a finire normalmente nell’inceneritore. Grazie all’idea innovativa una parte di questi scarti viene recuperata, essiccata naturalmente al sole e poi polverizzata. Si ricava una farina marroncina, che viene portata in lavorazione in uno stabilimento tessile a Firenze, dove con l’aggiunta di un legante si ottengono delle bobine di tessuto che può essere successivamente colorato.
Il materiale che ne risulta è versatile e duraturo e si adatta anche ad abiti tecnici che hanno caratteristiche diverse dai normali vestiti, poiché devono essere idrorepellenti, in grado di proteggere dal freddo anche a temperature che scendono di parecchi gradi sotto zero, devono resistere ad abrasioni e raggi ultravioletti.
Toccando con mano questi giacconi, felpe, pantaloni realizzati da designer francesi, in cui, in misura minore o maggiore è inserita la pelle mela ci si accorge della consistenza un po’ diversa dai tradizionali piumini, comunque piacevole al tatto. Oltre alla pellemela, l’azienda utilizza per gli esterni di alcuni capi anche Econyl®, un filo di nylon rigenerato, prodotto da un’altra azienda nostrana, la Aquafil di Arco.
Egna, Firenze, Arco… insomma, per la produzione di questi abiti la filiera è tutta italiana, per lo meno in gran parte. Solo per alcune lavorazioni ci si appoggia a laboratori in Romania, spiega Helga.
I prezzi? Questi prodotti, per via della lavorazione che richiedono, la ricerca e l’innovatività che sta dietro la loro realizzazione si collocano in un segmento piuttosto alto del mercato e i prezzi non possono, necessariamente, essere troppo bassi. Ma è questo il punto. La moda fast, venduta a prezzi stracciati, non tiene conto, spesso e volentieri, dell’impronta ambientale di un prodotto. Se realmente i prezzi riportati in etichetta in negozio considerassero i costi ambientali dell’intero ciclo produttivo, certamente sarebbero molto più elevati.
“Occorre un cambio di mentalità, afferma anche Helga, è necessario capire quale sia il giusto valore che sta dietro ad un prodotto”.
Una storia diversa è quella di Barbara Trenti, che andiamo a trovare nel suo The Bad Seeds Company, negozio di sartoria in centro ad Egna. Il nome, letteralmente “la compagnia dei cattivi semi”, incuriosisce subito e fa pensare al noto gruppo rock. E infatti i vestiti realizzati e venduti in questa bottega artigianale sono creati con i semi di una pianta dalla cattiva fama: la canapa, riportata anche sul logo. Naturalmente, specie all’inizio, non sono mancati commenti ignoranti a riguardo, che la associavano immediatamente alla marijuana: “Alcune persone mi hanno chiesto se è possibile fumarsi i vestiti, qualcun altro se fosse possibile togliere il logo”, racconta Barbara.
Ma perché puntare proprio su questo materiale così particolare?
“La canapa è una coltivazione più sostenibile rispetto al cotone, richiede poca acqua e nessun ricorso ai pesticidi. Inoltre può produrre il 250% in più di fibre rispetto al cotone e il 600% del lino” ci spiega Barbara.
In realtà non è nulla di nuovo: in Italia, infatti fino ai primi anni del ‘900 era una coltivazione molto diffusa, poi è diventato più vantaggioso per le aziende produttrici puntare sui tessuti sintetici e altre coltivazioni.
Benché ora lavori come imprenditrice e sarta, Barbara ha una formazione da biologa e il suo punto fermo è da sempre l’attenzione all’ecologia. Per lei, che è vegana e attenta all’uso consapevole delle risorse, si tratta di una vera e propria filosofia di vita. Così, ha intrapreso la via dell’abbigliamento green insieme al marito, Andreas Geier, intorno al 2000, iniziando a creare capi di moda sostenibile in un caffè e sartoria e musica dal vivo a Laives. Poi la coppia decide di trasferirsi ad Amburgo, con i due figli, dove nel 2015, arrivano a fondare appunto The Bad Seeds Company, che vendeva attraverso un portale on line jeans in denim canapa, maglieria in cotone riciclato da vecchi jeans e capi creati con fibre naturali.
Dopo l’esperienza in Germania sono tornati in Südtirol (Barbara è originaria di Laives) e nel maggio del 2020, in piena pandemia, hanno aperto coraggiosamente il loro negozio in uno spazio in via Andreas Hofer. Anche la figlia Sofia collabora con loro aiutando la mamma in negozio.
Dalle loro mani preziose escono abiti che sono pezzi unici: maglie, t-shirt, salopette …tutti dal taglio classico. Oltre ai vestiti in canapa, alcuni sono realizzati con fibre d’ortica, una varietà coltivata in India un po’ diversa da quella che cresce in Italia, con piante che possono arrivare ad essere anche molto alte. Immaginiamo cosa significhi raccoglierle…
“La mia missione è far conoscere questi materiali” afferma Barbara orgogliosa.
Per realizzare i tessuti, Barbara e Andreas si appoggiano a diverse realtà in Italia: una jeanseria in Molise, una maglieria in Puglia, e tramite un grossista tedesco che ha contatti con l’Asia, collaborano con alcune realtà controllate e certificate in Cina ed India. Il denim proviene invece dall’Est Europa.
E come è stato aprire in piena pandemia?
“Purtroppo devo dire che il Covid mi ha aiutato” ci dice “Per farci conoscere, all’inizio ci siamo messi a regalare mascherine realizzate da noi qui ad Egna. Inoltre, le fabbriche cui ci siamo rivolti per la lavorazione della fibra di canapa, che prima lavoravano con sartorie più grandi, hanno iniziato anche a collaborare con realtà piccole come la nostra, dato il grande bisogno di lavoro. Poi, fortunatamente, abbiamo lavorato molto grazie all’e-commerce.”
I clienti tipo sono signore, ma anche giovani che amano lo stile skater e il surf e non riescono a trovare altrimenti questi prodotti. Ed è in particolare a loro che Barbara vuole puntare nei prossimi anni.
Il sogno più grande di The Bad Seeds Company, però, sarebbe riuscire a produrre il tessuto da soli, in autonomia, confessa, anche se ciò richiede un grande investimento in termini di macchinari.
Le idee sono tante, si avanza un po’ alla volta. Se da un lato il contributo innovativo per una moda più attenta all’ambiente lo danno aziende come queste, dall’altra tocca però al consumatore fare la propria parte, afferma Barbara: “Bisogna cambiare logica, le aziende devono cambiare, seguire una linea più lenta, più pulita. Ma il cambiamento deve partire in primis da noi, dai consumatori”.