Parlare di ciò che ci meraviglia può sembrare paradossale, in questi tempi incerti e disillusi. Eppure spalancare una finestra verso altri paesaggi può diventare una piccola, ma cruciale strategia di sopravvivenza. La meraviglia è un’emozione misteriosa, potente, antica. È universale, ma non è frequente. È un sentimento (ammesso e non concesso che si riesca a sollevare lo sguardo dallo schermo del telefono) che può capitare di provare davanti all’immensità di una notte stellata, per esempio. La possiamo ascoltare in una musica, vederla nella maestosità di una cattedrale. Sentirla vibrare nei versi di un poeta. Annusarla in un profumo.
E voi, riuscite a ricordare l’ultima volta in cui vi siete sentiti rapiti dalla meraviglia?
Sperimentarla può essere un’esperienza illuminante, nella misura in cui obbliga chi la vive a ristrutturare i propri schemi mentali e cognitivi.
Può essere suscitata da un’ampia varietà di stimoli la cui unica caratteristica comune è portarci a distogliere l’attenzione da noi stessi e a farci sentire parte di “qualcosa di più grande”. È un’esperienza sottile, disarmante, perché ci permette di abbandonarci e lasciare che il Tutto ci attraversi. Come un magnifico prisma espandiamo il nostro essere interiore armonizzandolo con quello che sta fuori. E non ne abbiamo il controllo, avviene da sé quando allertiamo la nostra sensibilità. Ma non tutti proviamo meraviglia alla stessa maniera. Sperimentano più facilmente questa emozione gli individui che sono più aperti all’esperienza, che hanno maggiore tolleranza per l’ambiguità e che sono più propensi a esprimere gratitudine e ad avere un atteggiamento creativo.
Perfino osservare come la nostra mano può aprirsi e chiudersi a un nostro comando può essere meraviglioso. Così come può esserlo scovare un merlo che becchetta a terra o chiudere gli occhi e annusare il profumo dell’erba appena tagliata.
Se davvero basta una pausa di quindici secondi dal resto per incontrarla, forse vale davvero la pena concederle questa cura.