Montagna e sci: all’inseguimento della “terza via”

Cristina Franceschini sale lungo la Bellunese il 2 giugno 2019. Sullo sfondo l’imponente Sasso delle Undici

Che futuro vogliamo per lo sci nelle Dolomiti e nelle Alpi? Il futuro sarà ancora caratterizzato da grandi impianti, vasti demani sciistici trasformati in ambienti quasi-urbani, con logiche di tipo industriale? Oppure possiamo ritrovare un rapporto più sano ed equilibrato con la montagna invernale?

Una suggestione di risposta è contenuta nell’ultimo lavoro di Giorgio Daidola, firma molto conosciuta su diverse riviste di montagna, già autore di un libro dal titolo ispirato al rispetto delle cime innevate “Ski spirit” (2016).

La sua tesi, in estrema sintesi, è che il futuro dello sci alpino debba passare soprattutto da piccoli impianti, a impatto ridotto, con un’autonoma, forte identità, capaci di attirare un pubblico che ami davvero lo sci ma che rispetti anche il contesto dove lo pratica. Daidola nel libro parte dalla Marmolada, sua meta di elezione, per allargare sguardo e idee all’arco alpino dello sci.

Daidola, che è anche maestro di sci, illustra questa tesi nel recente libro “Marmolada bianca”, pubblicato dal Gruppo Editoriale Tangram, con il contributo di Montura.

L’autore non è solo un grandissimo appassionato di telemark e scialpinismo, è anche per professione docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche all’università di Trento e pubblicista iscritto all’Ordine dei giornalisti. È stato direttore della Rivista della Montagna e dell’annuario Dimensione Sci; ha pubblicato articoli e fotografie sulle più prestigiose riviste di outdoor europee e statunitensi. Ha partecipato come regista e come attore a parecchi film di sci e di montagna, premiati nei principali festival.

La prima seggiovia a Pian dei Fiacconi inaugurata nel 1946. Per rivivere la gloriosa storia dello sci in Marmolada si veda la notevole collezione di vecchie foto su skiforum.it Marmolada-archeologia sciatoria
Cartelli ammonitori e premonitori a Pian dei Fiacconi

Nell’apertura del volume Daidola scrive “C’è chi afferma che gli impianti vanno tutti rasi al suolo e chi invece fa di tutto per trasformare la montagna in lunapark, con una ragnatela di seggiovie e cabinovie. Fra queste due visioni contrastanti forse ne esiste una terza, che non è un compromesso. È quella di lasciar vivere, o far rivivere, le piccole stazioni poco impattanti e particolarmente creative“.

L’economista-sciatore illustra l’esempio della cestovia tra Passo Fedaia e Pian dei Fiacconi, suo grande amore sciistico, che sussume tanti altri possibili modelli. La sua teoria è che il futuro dello sci (in Marmolada, e altrove) possa passare soprattutto da tante piccole stazioni, indipendenti dall’innevamento artificiale, collocate ad una corretta altitudine, indipendenti da grandi investimenti e dunque anche non soggette alle grandi perdite che invece caratterizzano i grandi demani.

“Il turismo dello sci per sopravvivere dovrà adattarsi all’ambiente e a stagioni sempre più bizzarre – scriveva Daidola pochi anni fa, in un articolo riportato nel nuovo libro – non cercare stoltamente di dominare entrambi. Il futuro sono quindi, lo ripeto, impianti leggeri, tipo skilift, cestovie e manovie, non gli impattanti impianti moderni per lo sci sintetico. Non c’è che da sperare che i nuovi proprietari dell’impianto di Fedaia si rendano conto di tutto questo, ossia di avere investito bene i loro soldi in un modello di stazione per il futuro.” La storia dice che invece i nuovi proprietari dell’impianto di Fedaia (comprato nel 2018 dai fratelli gardenesi Mahlknecht) mostrerebbero di non averlo ancora capito: la cestovia è stata chiusa nel 2019 e si progetta una telecabina di altra portata. Ma la proposta di Daidola resta in campo.

Folla di scialpinisti sulla cima di Punta di Rocca nel maggio 2018

Se è vero infatti che il modello massificato e industriale dello sci in zona alpina ha portato flussi ingenti di turisti e ha fatto girare molto denaro, creando posti di lavoro (sulla cui qualità ci sarebbe da discutere), altrettanto vero è che questo sistema richiede continui ingenti denari pubblici e moltissima energia e denaro per l’innevamento artificiale, ed impatta su ambiente, fauna, paesaggio, qualità della vita nei paesi e nelle valli in modo fortissimo. Non sono state investite pari risorse in tutte quelle attività economiche e culturali alternative, che anche in inverno o meglio ancora, nelle stagioni intermedie, porterebbero comunque ricchezza, in modo diversificati, con impatti inferiori.

Un fattore essenziale è il cambiamento climatico, che sta già portando problemi molto importanti al mondo dello sci industriale.

Leggiamo allora nel Rapporto Nevediversa 2021 di Legambiente qualche dato, ad esempio, sull’altitudine alla quale nelle Alpi avremo garanzia di poter mantenere il manto nevoso: “La LAN (Linea di Affidabilità della Neve) potrebbe salire a fine secolo dai 1500 m s.l.m. misurati nel 2006 ai 2400m s.l.m. e oltre. Le stagioni della neve, che dal 1960 al 2017 si sono accorciate in media di 38 giorni, subiranno ulteriori contrazioni. In base alle previsioni di sciabilità per i prossimi decenni nei comprensori alpini (dati Ocse e Eurac) si delineano scenari fortemente pessimistici.“

In vista delle prossime Olimpiadi invernali, che interessano anche il Trentino, leggiamo quanto scrive il Rapporto “Due anni fa, un pool di ricercatori ha analizzato le prospettive climatiche degli impianti sciistici che fino ad oggi hanno ospitato una o più edizioni delle Olimpiadi invernali. In uno scenario ottimistico soltanto 13 dei 21 impianti osservati sarebbero in grado di ripetere l’esperienza nel 2050, mentre gli altri 8 dovrebbero chiudere per mancanza di neve. Nell’ipotesi peggiore, proseguono i ricercatori, gli impianti disponibili entro la metà del secolo si ridurrebbero a 10 per scendere a 8 nel 2080“.

Nevediversa documenta da anni le buone pratiche di operatori turistici che ragionano in modo diverso. Perché un’altra neve, e un altro inverno, sono possibili. O si cambia per scelta, o si cambia subendo dinamiche più forti (a partire dal cambiamento del clima) della nostra inerzia.

Giorgio Daidola medita sul futuro della Marmolada nel giugno 2021 dopo l’ultima discesa
Il libro
La Marmolada nella sua veste invernale e primaverile esprime da sempre il meglio di uno sci senza età, di uno sci che non è solo sport in quanto investe anche le sfere dello spirito. L’autore, che ha avuto il privilegio di lasciare le sue tracce su questo massiccio per quasi mezzo secolo, è seriamente preoccupato della probabile perdita di questa dimensione sciatoria per la Regina delle Dolomiti, con la sua definitiva omologazione ai moderni lunapark della neve finta. Per farci capire cosa rischiamo di perdere in termini di bellezza (non solo sciistica) ci descrive le classiche linee di discesa, spesso sconosciute al gran numero di sciatori che frequentano in fila indiana la Marmolada sempre lungo lo stesso itinerario. Indugia anche sulle grandi traversate del selvaggio versante sud del massiccio, espressione di uno sci maturo. Questo volume non vuole però essere una guida di itinerari sciistici da affiancare alle ottime guide elencate nella bibliografia. Vuole essere soprattutto un tentativo di far capire che esiste, tra editti tanto reboanti quanto utopistici e progetti malsani di falsa sostenibilità, una terza via praticabile anche economicamente per salvare questa montagna simbolo delle Dolomiti. E con lei anche il vero sci.


Giorgio Daidola
Marmolada Bianca
Edizioni del Faro, pag. 108, € 15
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Pubblicato da Maddalena Di Tolla Deflorian

Nata a Bolzano, vive sull’altopiano della Vigolana (Trento). Ha una formazione in ingegneria, geografia, scienze naturali. È educatrice, interprete ambientale, giornalista. Collabora con la RAI di Trento e varie testate. La sua attività si focalizza in particolare su biodiversità, etica fra specie, ricerca scientifica. Ha seguito con varie associazioni ambientaliste alcune significative vertenze ambientali. E’ stata presidente di Legambiente Trento, delegata della Lipu Trento, oggi è referente di Acl Trento, occupandosi di randagismo e canili. Ha contribuito a fondare e gestire il canile, il gattile, il Centro Recupero Avifauna di Trento. Ha preso parte al salvataggio dei 2600 cani di Green Hill. Ha maturato una profonda esperienza giornalistica e di advocacy nelle vicende legate a gestione del territorio alpino e conservazione della biodiversità. Con il fotografo Daniele Lita ha firmato il libro “Fango”, sul disastro di Campolongo (Tn), per Montura Editing. Ha curato la ricerca giornalistica per la mostra “Chernobyl, vent’anni dopo” (Trento, 2006).