Nel mondo dei non vivi

C’è un pezzo di umanità nascosta a pochi metri dal Muse e dagli appartamenti delle Albere. Niente di nuovo, in fondo. Niente che non si possa dimenticare. Benvenuti a Trento! A pochi metri dal parco, poco lontano dal museo dove si celebra la scienza e la civiltà, c’è un pezzo di umanità.

È umanità maleodorante. La miseria puzza. Sa di sudore, di fiato pesante, di influenza non curata, di pantaloni di cotone troppo leggeri per l’inverno nel profondo nord d’Italia, di jeans freddi che avvolgono corpi che si lavano poco. Sa di piedi scalzi dentro scarpe da ginnastica di gomma. Sa di mani sporche perché qualsiasi cosa tocchi non hai che l’acqua del rivo, che attraversa la baraccopoli, per pulirti.

E poi ti asciughi alla bell’e meglio su quegli stessi jeans. 

Si attraversa il ponte pedonale in legno, frequentato da frotte di ciclisti e turisti pronti ad andare a visitare i mercatini. Si gira a sinistra e poi basta scendere. Qualche passo attento, facendo attenzione a dove si mettono i piedi e ci si trova in una specie di tunnel: un mondo di mezzo, un piccolo villaggio, a metà strada tra la ricchezza della città (Trento smart city, Trento città alpina) e il Pakistan. Trento, città dal cuore grande, non sufficientemente grande. Non c’è spazio per Khan (22 anni), per Hamza Alì (19 anni) o per Ahmad (34 anni). Sono immigrati pachistani, richiedenti asilo. Dormono e vivono sotto a un ponte, a pochi passi dalla tangenziale, dall’autostrada, dal fiume Adige, dall’umanità bella. Noi siamo andati “a casa loro”.

Quanti sono i giovani stranieri che sopravvivono ai margini del capoluogo? Prima di Natale erano una decina, ma il numero è variabile. «Dipende dai giorni – spiega  Hamza, che ci raggiunge con in mano un litro di latte da portare agli amici – ma a volte siamo venti. Fino a pochi giorni fa eravamo cinquanta». Tanti di loro sono stati trasferiti in Sardegna. Hanno ricevuto “l’invito a presentarsi” della questura e poco dopo sono saliti sui FlixBus che li hanno portati a Genova, poi su un traghetto e poi nell’entroterra sardo, come da disposizioni ministeriali. 

Sotto il ponte, nei pressi della sede di Dolomiti Ambiente, lungo la tangenziale ovest di Trento si trova la piccola baraccopoli. Si dorme su materassi di fortuna, con scatoloni e vecchie coperte

Sono giovani, poveri e arrabbiati. Vorrebbero una vita migliore. Non era questa l’Italia che avevano immaginato quando si sono messi in viaggio, chi un anno fa, chi circa dieci mesi. Ahmad elenca i Paesi attraversati: Afghanistan, Iran, Iraq, Turchia, Grecia, Albania, Serbia, Montenegro, Croazia, Italia. Adesso sono a Trento e sperano in un futuro migliore.

Qui – chiediamo – cosa potete fare? Cosa volete fare? «Qualsiasi cosa. Possiamo lavorare in fabbrica. Possiamo lavorare in campagna. Qualsiasi cosa…». Da agosto la rotta balcanica è percorsa da migliaia di disperati alla ricerca di un posto degno dove crescere. «Ne arriveranno altri, anche se qui non si trova un posto dove lavorare e dove dormire». Hamza spiega che per loro non c’è posto nelle strutture di accoglienza di Trento. Ma come fate a mangiare? «Per fortuna c’è il Punto di Incontro. Il fatto è che sotto il ponte, al freddo, ci ammaliamo». Chiama l’amico Khan. «Mostragli le mani!» Khan, che non parla né italiano né inglese, esegue. Il ragazzo mostra mani pallide, la pelle secca e con qualche taglio qua e là. Di cosa si tratta? «Non lo sappiamo». Il prurito è forte, a tratti fortissimo. «Help us!» è una delle poche cose che riesce a dirci. Per il resto si affida ad Hamza, il quale ci spiega che, per arrivare fino a Trento, ha speso qualcosa come diecimila euro. E i soldi da dove vengono? «Dai lavoretti fatti qua e là, qualche risparmio. Per venire fin qui abbiamo venduto le nostre terre».

Mentre ci dice questo si gira verso quell’accampamento fatto di materassi di recupero, coperte, cartoni e poi ci guarda senza aggiungere altro, ma lo sguardo è eloquente. “Ecco dove ci ha portato il nostro viaggio”. I ragazzi spiegano che le strutture di accoglienza in Trentino non sono sufficienti «e comunque per noi non c’è posto». Khan, Hamza e Ahmad scostano le coperte che fanno da “pareti” alle loro “baracche” appoggiate al muro di cemento. Il freddo e l’umidità si sentono a distanza. Solo a pensarci ti entrano nelle ossa. I tre pachistani accendono le torce dei loro cellulari (unico contatto con il mondo da cui provengono e una finestra su quell’occidente fatto di luci, promesse e carta patinata come quella delle Agenzie di promozione turistica) e così riescono ad illuminare l’interno. Vecchi materassi, coperte, qualche bottiglia di plastica. Le temperature vanno al di sotto dello zero, di giorno come di notte. Si dorme vestiti, ovviamente. Il “bagno” è il più lontano possibile da dove si dorme. Ahmad mostra una cascatella: «Siamo qui da cinque mesi. Quella è la doccia». 

Hanno tra i 19 e i 35 anni. Per arrivare in Italia hanno seguito la rotta balcanica. Hanno dormito per strada, dentro container, nel fango, ovunque. Arrivati a Trento non hanno trovato una casa perché i posti sono contingentati. Solo dopo che ne ha scritto “Il nuovo Trentino” due di loro hanno trovato un tetto

La temperatura va sotto lo zero. L’ente pubblico è a conoscenza del problema. Le realtà che si occupano di assistenza, dalla Caritas al Centro Astalli, l’allarme lo hanno lanciato a fine estate. L’emergenza freddo non è emergenza, nel senso che si sa che ci sarà. Siamo in una regione alpina, sai quando arriva il gelo e sai quando nevica. Il problema dei richiedenti asilo è che sono ancora più sfigati degli altri poveri, perché il sistema dell’accoglienza in Italia si muove su due binari paralleli che non si incontrano: da una parte i posti per i senza fissa dimora “classici” e dall’altra quelli per i richiedenti asilo. Per loro le “caselle” sono contingentate. Fino a quattro anni fa erano 1700. Ora sono 600. Chi resta fuori o viene spedito altrove (i famosi tour in Sardegna) o va sotto i ponti. Dopo che a Bolzano un egiziano di 20 anni è morto di freddo e dopo l’allarme lanciato dal quotidiano “Il nuovo Trentino” , la Provincia ha annunciato che da gennaio ci saranno altri 100 posti. Col 2023 si arriva quindi a quota 700. Il Comune, che non ha competenza diretta, ha suonato la tromba del Settimo Cavalleggeri annunciando l’apertura di uno spazio-dormitorio da 40 letti in un’ala inutilizzata della scuola elementare Bellesini in via Stoppani. La dichiarazione è di sabato 10 dicembre. Lo spazio è stato aperto il giorno 14. Nel frattempo solo gelo, febbre a 39 (una cosa è fare l’influenza al caldo e una cosa è farla sotto un ponte). Tachipirina (qualcuno l’ha portata ai giovani pachistani) e vigile attesa. Poco vigile l’ente pubblico trentino. E mentre Comune, Provincia e Commissariato del Governo si sono fatti prendere in contropiede, non resta che ascoltare i giovani pachistani che hanno cercato ospitalità a Trento, nominata capitale europea del volontariato per il 2024.

Non sai se sono più preoccupati o arrabbiati. Quelli che abbiamo davanti sono dei ragazzi di 19-20 anni. Sono giovani, giovanissimi. Per capirlo non occorre il passaporto, che pure ci mostrano: foto pulite di quando stavano ancora in Pakistan (alcuni di loro provengono dal Punjab, “La terra dei cinque fiumi”), visi sbarbati e meno stanchezza addosso. Ragazzi con occhi da uomini. Di cose ne hanno viste e passate. Tutte riassumibili con la parola “miseria”, che li accompagna anche in Italia, anche nel magico Trentino. E questo spiega la rabbia. Di cosa vivete? «Di cosa viviamo qui? Per fortuna c’è il “Punto di Incontro” (il centro di assistenza agli ultimi fondato dall’indimenticato don Dante Clauser, che dà un pasto caldo a senza tetto e richiedenti asilo senza chiedere documenti di identità o certificazioni di povertà, inutili, ndr) altrimenti non so cosa potremmo fare». Parla un buon italiano Hamza Alì, avvolto in un giubbino scuro. Assieme agli amici condivide varie cose: il desiderio di una vita un po’ migliore, la nostalgia di casa, l’incazzatura verso un Paese, l’Italia, che pensavano diverso e gli spazi sotto il ponte dove hanno costruito il loro rifugio contro il freddo fatto di coperte e qualche materasso. Con lui e i suoi compagni di sventura visitiamo la baraccopoli tra le Albere e l’area di San Nicolò. Ci mostra cosa c’è sotto quel ponte, poco distante dalle luci della Trento pubblicizzata sulle brochure e sui siti internet. «Di cosa viviamo…» Fa una pausa, cercando le parole in una lingua tanto diversa dalla sua. «Abbiamo raccolto l’uva». Dove? «Nelle campagne qui vicino». Quanti soldi? «Cinque euro all’ora, tutto in nero». Hamza e gli altri sperano di poter uscire dal tunnel nel quale la vita li ha infilati, ma intanto la temperatura è sotto lo zero e la primavera ancora lontana. Al Punto di Incontro i pachistani rappresentano circa il 30% di chi riceve assistenza. Il direttore Osvaldo Filosi spiega che dall’inizio dell’anno al 30 novembre si sono contate circa 800 persone. Le nazionalità sono le più varie: gente proveniente da Marocco, Tunisia, Bulgaria, Albania. La povertà è senza confini ed ha i volti più vari. E gli ucraini? Gli ucraini viaggiano su “altri binari”. L’accoglienza diffusa per loro è stata una buona risposta. «Di sicuro il flusso della rotta balcanica è potente. Lo abbiamo percepito – spiega Filosi – Una buona fetta dei pachistani è composta di giovani under 30, persone in età da lavoro, con tanta energia». Hanno addosso la rabbia, comprensibile, di chi cerca ma non trova e fa i conti con nuove forme di povertà. «Sono arrabbiati e stanchi» conferma il direttore del centro di via Travai, dove ogni mattina, a partire dalle 9, si dà la colazione ad una ottantina di ospiti, ma è il pranzo il momento clou. Giovani e meno giovani fanno la fila (la cucina sforna pasti dalle 11.45 alle 13.30) per il self service e per stare al caldo nelle due sale messe a disposizione. In questo periodo si parla di 190 persone al giorno. Il Punto di Incontro è uno dei riferimenti certi per gli ultimi. La miseria tocca tutti e forse, in un periodo denso di incertezze (con le bollette alle stelle a causa del coinvolgimento dell’Italia nel conflitto tra Russia e Ucraina, al fianco del governo retto di Volodymyr Zelenski) fa più paura anche a noi, noi “salvati,” proprio perché si sente più vicina, più reale. Povertà democratica… Ma intanto, per chi oggi si trova ufficialmente nell’elenco dei dannati, quali possono essere le soluzioni? «Ovviamente non ho ricette. Credo che ci sia bisogno di un patto tra mondo economico, Provincia e Comune di Trento – dice Filosi -. Insieme potrebbero creare un ostello, pensato per quelle persone che magari possono trovare lavoro ma che hanno chiaramente bisogno di un tetto sotto il quale poter dormire e vivere. Non sarebbe una soluzione definitiva. È la teoria dello sgabello» La teoria dello sgabello? «Sì. L’ostello può servire da appoggio a tempo, come uno sgabello. Quando uno riesce a metter via un po’ di soldi è il primo a voler vivere diversamente, magari con la famiglia. È nella natura delle cose».

Khan e Hamza, dopo le notti al freddo e la paura di non riuscire a farcela, hanno trovato un posto al caldo: un dormitorio, un riparo e una speranza per una vita migliore. In Trentino inizia il loro 2023

È l’emergenza elevata a sistema quella che abbiamo davanti agli occhi. Quando tutto è emergenza, nulla è emergenza: anche quando gli eventi potrebbero essere governati per tempo si dà l’impressione di essere sempre con l’acqua alla gola; il risultato è una sensazione – diffusa, collettiva – di costante ansia a cui seguono la rassegnazione e la cieca speranza in chi governa. “Va così. Ci penserà chi ci deve pensare”. Solo che a volte nessuno ci pensa. Nel caso dei migranti, come in quello delle pandemie (più o meno ben gestite) basterebbero razionalità e buona fede. Nello specifico, a fronte di una notizia pubblicata dal giornale, ci si sarebbe aspettati un intervento tempestivo. Sotto quel ponte vivevano esseri umani (e realisticamente altri esseri umani arriveranno). Ai ragazzi pachistani qualcuno ha portato cibo caldo, dei vestiti invernali, scarpe adatte al dicembre trentino. Khan lo abbiamo portato noi, assieme all’amico Hamza, al pronto soccorso di Trento. All’ospedale Santa Chiara se ne sono presi cura. I medici gli hanno diagnosticato ciò che, pur non essendo esperti, si immaginava potesse essere: scabbia. Se dormi al gelo, su materassi sporchi dove hanno dormito molti altri prima di te, se bevi l’acqua del rivo che passa sotto il ponte, se quell’acqua la usi anche per lavarti e cucinare, se abiti nel fango e nella polvere, il minimo che ti può accadere è prenderti la scabbia. Il giovane pachistano deve fare la profilassi, anche per non contagiare gli altri. Sorridono Khan e Hamza perché il giorno della visita in ospedale hanno trovato posto in due dormitori, uno alla Residenza Fersina e uno a Gardolo. Per loro, alla fine, ci sono un tetto, letti caldi e puliti. Altri arriveranno a “Trento, smart city,” e attraverseranno l’ultima (forse, l’ultima) tappa del loro inferno personale.

La fame morde. A Trento c’è il “Punto di Incontro”, centro di assistenza fondato dall’indimenticato don Dante Clauser. Per il resto si devono arrangiare. Sotto zero si soffre e ci si ammala

Il vento dell’indifferenza che ci sta soffiando in fronte
Trento si trova in testa a tutte le classifiche della vivibilità: qui si sta bene, malgrado mille problemi, ci sono ottimi servizi, c’è una splendida natura, c’è benessere diffuso. Trento, però, non eccelle più quanto a solidarietà. Eravamo  un modello, un esempio. Eravamo quelli che aprivano le porte a chiunque. Quando l’Autonomia ci ha fatto uscire dalla povertà, abbiamo dato prova di essere un territorio capace di accogliere, di saper offrire ciò che di buono avevamo. Adesso qualcosa sta cambiando. Il vento dell’indifferenza ci sta soffiando in fronte. Lo dimostrano i reportage ripetuti di Andrea Tomasi sul nostro giornale, “il nuovo Trentino”.  Abbiamo cercato di guardare dove di solito non si va a guardare, quando abbiamo avuto notizie di nuovi arrivi di rifugiati abbiamo subito cercato di capire dove avessero trovato “rifugio”. E abbiamo trovato subito 100 richiedenti asilo accampati dove potevano, dentro qualche anfratto della città. Andrea Tomasi ha raccontato le loro notti al freddo e al gelo. Erano i primi giorni in cui il termometro è andato sottozero e i profughi, in gran parte giovani e pakistani,  avevano trovato ricovero sotto i ponti dell’Adige, nella zona delle Albere. Erano lì, come dei disperati, sotto un ponte che sta a un passo dal quartiere più moderno e più chic della città. Il benessere scorreva, placido, e loro là, a pochi passi, a battere i denti, coperti con i cartoni, riscaldati con qualche fuocherello improvvisato. Nessuno ne parlava, nessuno andava a trovarli, nessuno interveniva. Appena il giornale ha alzato le antenne, appena “il  nuovo Trentino” ha documentato con le foto ciò che stava accadendo, ecco alzarsi rapidamente la bandiera dei “soccorritori istituzionali”. Che all’improvviso hanno ammesso che sì, c’erano dei rifugiati sotto i ponti, e che loro (Provincia, Comune) avrebbero subito messo a disposizione dei letti. È partita così la rumba degli annunci: annuncia letti tu che li annuncio anch’io, sembrava che nel volgere di una giornata o poco più ci fossero posti a disposizione per centinaia di profughi di oggi e di domani
La sera successiva siamo ritornati sotto i ponti e i rifugiati erano ancora lì. Il giorno dopo di nuovo, ma intanto la grancassa degli annunci s’era spenta. Siamo tornati ancora. E ancora. E quando due di loro sembravano davvero non farcela più, li abbiamo accompagnati noi all’ospedale. 
Poche ore più tardi, finalmente, si sono materializzati i primi posti letto. Sono arrivati dalla diocesi. Che non aveva annunciato nulla e ha provveduto prima degli altri. 
Ecco a cosa servono le parole e le foto della stampa. Ecco a che cosa serve un giornale. Ed ecco a che cosa serve il silenzio operoso della diocesi e dei volontari Caritas e di chi sa che la prima cosa che conta è dare aiuto concreto, non fare annunci o simpatici post su Facebook.

Paolo Mantovan
Direttore de “il nuovo Trentino”
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Pubblicato da Andrea Tomasi

Giornalista e documentarista, si occupa di ambiente, salute e incazzature varie. È autore di libri e docufilm: "Fotocamera con Vista" (Il Margine, 2009), "La farfalla avvelenata" (Città del Sole edizioni - 2012), "Veleni in paradiso" (docufilm - 2014), "Un filo appeso al cielo" (docufilm - 2016), "Pesticidi, siamo alla frutta" (docufilm - 2018), "Pfas, quando le mamme si incazzano" (docufilm - 2019), "Donne Dolomitiche" (Accademia della Montagna - Tms, 2020). Il su oultimo libro è "Le insospettabili che rapirono Salvini" (Terra Nuova edizioni, 2022).