Immaginate di essere uno psichiatra nel cuore della Hollywood degli anni ‘50 del ‘900, chiamato a trattare la bionda più famosa del mondo. Non c’è nulla di più pericoloso, perché ogni parola può finire sulle prime pagine dei giornali. Non solo. C’è il concreto rischio di dannarsi l’anima…
Seduti nello studio di Ralph Greenson ci si trova di fronte a una Marilyn che non ti aspetti. Lontana dall’immagine patinata che il pubblico conosce, la bionda icona del cinema si rivela come una donna fragile, vulnerabile, intrappolata in una spirale di disillusione. Entriamo così nel cuore di “Marilyn e lo psichiatra” di Vincenzo Florio (Edizioni del Faro, pag. 188, € 15) dove le parole di Lei, intrecciate con quelle del suo psicoanalista, svelano il dolore celato nei “racconti di una donna che si stava arrendendo, vittima, ancora una volta, dell’irrazionale, così come già era successo ai suoi antenati.”
Una riflessione che va oltre la persona per toccare il cuore di una lotta più universale: quella tra il successo e la solitudine, tra il desiderio di essere amata e la consapevolezza che ogni amore è destinato a essere consumato dalla fama. Lo scenario, con i suoi protagonisti – da Sinatra a Clark Gable, da Lee Strasberg a Anna Freud, fino ai fratelli Kennedy – non è solo sfondo, ma il contributo decisivo a definire una trama in cui ogni segreto viene indagato con la precisione di un’analisi psicoanalitica (Florio stesso è uno psichiatra).
Un racconto che, tra le microspie della CIA e le luci del camerino, svela un volto di Marilyn insolito. In questo intreccio di fragilità, potere e complessità, il mito si dissolve, lasciando spazio alla donna, in tutta la sua verità inquietante, l’abisso imperscrutabile della sua psiche, l’arma a doppio taglio dell’eros, all’ombra di quel lato oscuro che tutti “vorremmo cancellare una volta per tutte”. E non cancelliamo mai.