La casa, di un’arcana bellezza, doveva aver visto tempi migliori: sulla facciata in pietra, sotto le tegole in cemento scolorite, le persiane erano screpolate, disseccate dalle intemperie. Anche il giardino che l’abbracciava aveva un aspetto incolto, fatta eccezione per i vecchi roseti che disegnavano il vialetto di accesso. La villa a due piani, poco lontana dal centro, risultava un po’ isolata, solenne, forse a causa degli alberi scuri che la incorniciavano, estranea all’architettura di quella zona della città.
Ed era così anche lei, anziana e dimentica, rimasta ormai sola nella proprietà, staccatasi dal fermento cittadino che l’aveva vista per tanti anni scendere tra le vie e le botteghe, apparire nei salotti e nei caffè. Si era ritirata ad abitare nelle cose che aveva raccolto: scampoli di bellezza, squarci di visioni. Perché, se tutti abbiamo nella nostra abitazione un posto più o meno segreto dove teniamo la scatola dei ricordi, dove c’è un po’ del nostro mondo, ecco, lei aveva trasformato l’intero palazzo in questo. Tra vecchi pavimenti in legno a doghe lunghe, tappeti consunti, pareti in lacca di un azzardato color zucca, vecchie poltrone dalle imbottiture sfibrate, in certi punti la casa sembrava un deposito con difficoltà di passaggio.
La passione per l’arte Maria, l’aveva ereditata dal padre, un uomo concreto e pratico che tuttavia amava la scultura, la musica ed era solito ritagliarsi piccoli spazi per evadere dal lavoro di costruttore edile e godere, insieme alla madre di Maria, della compagnia di vecchi amici, artisti e professori. Aveva iniziato così, tra un salotto e la visita a qualche galleria degli amici dei suoi genitori, a raccogliere regali. Più avanti le era venuto naturale, frequentando quegli ambienti, comprare. Anche se non vendeva mai. Non cercava il miraggio di un guadagno futuro, il business, si trattava di oggetti che per lei rappresentano storie. Opere che conserva tuttora con una cura molto simile all’amore, l’unico della sua vita. Un religioso amore.
Guardando l’ampio salone, le scale, l’ingresso, si rendeva conto che ne aveva collezionate così tante che negli anni gli spazi sembrava non bastassero più. Opere ovunque: c’erano quadri persino sulle ante delle porte, sugli scuri, statue sugli scalini, accanto alle entrate.
Per lei, si trattava di storie: per raccontare la vita degli artisti, la sua e quella degli amici, di un percorso, delle gallerie, dei premi, dei cataloghi, delle feste e dei compagni, del mondo intero. Ogni quadro imballato e accatastato sotto il letto o in corridoio, rappresentava un pezzo di sè, un pezzo di cui non riusciva più a ricordare la trama o l’emozione, un pezzo che avrebbe voluto tenersi stretto a dispetto dello spazio e del tempo, a dispetto dell’età e di quella mente stanca. E Maria, squarciando con gli occhi le lenzuola che coprivano la collezione destinata a dividersi presto da lei, raccontava oltre il velo del reale una vita fantastica e colma di passioni che forse nemmeno era stata tale, che magari aveva solo immaginato. Sola e stanca, sapendosi al tramonto di un’epoca, la sua, cercava ormai nell’arte la risposta filosofica alla perdita di certezze razionali, cercava di vedere attraverso le opere cosa sarebbe rimasto di lei. E, forse, in una casa piena di storie, accarezzava l’idea di riempire i vuoti di un’esistenza e di una memoria che si stava perdendo.