
In vista delle due recite de “Il Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini, che si terranno il 31 gennaio e 2 febbraio al Teatro Sociale di Trento, abbiamo il piacere di incontrare Nicola Ulivieri, uno dei bassi più apprezzati del panorama lirico contemporaneo, che interpreterà il ruolo di Don Basilio. Ulivieri, con una carriera che lo ha visto protagonista in numerosi teatri internazionali, ci racconta le sfide e le soddisfazioni di affrontare un personaggio iconico come il maestro di musica che trama con Don Bartolo per calunniare il conte d’Almaviva, e condivide le sue riflessioni sul mondo dell’opera lirica oggi, tra tradizione e innovazione. La sua interpretazione, sotto la direzione di Alessandro Bonato con l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, promette di regalare un’esperienza unica e coinvolgente.
Dunque, allora parliamo del “Barbiere”, il 31 gennaio e 2 febbraio. Sono due recite. Cominciamo da qui: è un segno dei tempi?
È un segno dei tempi, purtroppo. Per me è tutto, ma d’altra parte quando in televisione si sentono certi strafalcioni come “il tenore” riferito all’interprete femminile…
Opera e streaming? Accoppiata orribile o credibile?
No, non credo che funzioni, per il semplice fatto che l’opera nasce e muore, se deve morire, in teatro. Perché è solo lì che si sente il risultato vocale e che c’è un equilibrio tra orchestra e palcoscenico. Se il canto è riprodotto dai microfoni non ha la stessa valenza. La distanza fa parte di quello che ha voluto anche il compositore. Alle volte ci sono delle indicazioni, uno suono che viene da più lontano, uno suono che è più in proscenio. Quindi anche noi, se un regista è bravo, dovremmo giocare su queste dinamiche.
Sono passati oltre due secoli dalla prima de “Il Barbiere di Siviglia”, eppure quest’opera mantiene intatto il suo fascino. Qual è il segreto della sua longevità?
Il segreto non sta tanto nella trama, ma nell’interpretazione. L’opera lirica vive grazie agli artisti: gli interpreti, l’orchestra, il direttore e il regista. Ogni rappresentazione è unica, legata al momento, al luogo, agli interpreti e alle scelte artistiche. Questo rende ogni “Barbiere di Siviglia” irripetibile, un evento che esiste solo lì, in quel preciso istante.
Certo, che vale anche per la prosa, però voi in più avete la parte musicale…
Esatto, esatto. Oltre a recitare, dobbiamo cantare. E non è poco.
Entrando nel vivo del “Barbiere” di Trento, Don Basilio, uno dei personaggi più particolari, quali aspetti di questo ruolo la fascina di più?
Ma intanto diciamo che se non avesse quell’aria formidabile che è “La calunnia è un venticello”, perderebbe la sua importanza come personaggio. Diciamo che rispetto alla vicenda è un personaggio, se vogliamo, minore. Potrebbe essere buffo come Bartolo, però con meno momenti musicali, se non fosse per questa che è tra le arie più importanti del panorama operistico in assoluto. In definitiva, “La calunnia” ne fa un personaggio centrale. Un personaggio comico, a ben guardare.
Lei ha interpretato anche personaggi tragici, mi incuriosisce questa cosa. Ma interpretare un personaggio comico, tutto sommato, quali sfide comporta rispetto a interpretarne uno di segno opposto?
Alle volte è la stessa vicenda che ti porta a far parte di una situazione comica. Poi c’è l’arte di far ridere o di sapersi muovere in un certo modo, ma non è che occorra fare per forza il buffo per essere giusto in quell’interpretazione. Con l’aiuto del regista e con la propria esperienza teatrale si può rendere il personaggio buffo o tragico, ma il contesto nel quale si trova lo aiuta già ad essere adeguato. Il modo di cantare è scritto, l’interpretazione, se la si sa leggere, è già tra le indicazioni del compositore.
In tutto ciò, il fatto che siamo di fronte a Rossini e non a un altro compositore, cosa comporta? Quali sfumature dello stile del celebre pesarese lei apprezza di più rispetto ad altri compositori?
Rossini, come anche Mozart e tutti in quel periodo storico, ma anche poi successivamente Donizetti, hanno un rigore musicale unico. All’interno di questo si trova la chiave per rendere il personaggio ancora più credibile. Un rigore dal quale non si può più prescindere perché ormai noi cantanti abbiamo una sorta di responsabilità storica. Poi, talvolta… già ci pensano i registi a fare delle cose che vanno oltre…
Nel bagno di “classicità” che è questa nostra conversazione, mi fa quasi impressione parlare di opera lirica, al giorno d’oggi, fatta di Instagram, social, like, ecc.. Gente con i telefoni in mano ogni ora. Lei quando termina una recita, pensa mai al pubblico che defluisce dalla platea? Cosa ha in testa, secondo lei? Cosa rimane loro di quello che hanno visto?
Credo che assistere ad un’opera lirica sia un’esperienza che vada ad arricchire innanzitutto culturalmente, ma anche emotivamente. Credo che ancora oggi si possa fruire della musica, del teatro e dell’opera come veicolo per arricchire in qualche modo la propria esperienza di vita, la propria esperienza emotiva. L’esperienza fisica è come fare un viaggio, come andare a visitare un altro paese. Andare a vedere l’opera è un’esperienza.
Reale però, immersiva e squisitamente reale.
Reale, interessante, culturale, di un’arte che per di più è prettamente italiana. Adesso poi che da qualche mese il canto lirico italiano è entrato a far parte dei beni immateriali dell’UNESCO: è stata una battaglia che hanno portato avanti alcuni di noi e alcuni teatri. È una cosa che si dava un po’ per scontata, ma in realtà la tecnica del canto lirico italiano era una cosa da sottolineare anche a questo livello internazionale.
Certo fa un po’ specie che arrivi dopo la scamorza di Vattelapesca…
Quelli sono beni materiali, ma anche il canto a tenore sardo, era già patrimonio dell’UNESCO. Il flamenco, come il tango argentino, erano già patrimonio immateriale. Ecco perché non si capiva la ragione per cui non lo potesse essere anche il canto lirico.
Lo davano per scontato forse…
Già, è probabile. È talmente grande che lo si dava anche per scontato, che fosse un patrimonio, ma almeno ora lo abbiamo messo nero su bianco.
Allora, un’ultima domanda secca, le chiedo un nome e il relativo “perché”: un teatro in cui ha cantato, un personaggio interpretato e un direttore.
Difficile. Dunque, il teatro che mi ha entusiasmato come qualità, diciamo, di sonorità e grandezza, è stato il Colón di Buenos Aires. Il ruolo che mi ha portato, che mi ha entusiasmato fare in passato, indubbiamente è stato il “Don Giovanni” di Mozart. In quanto al direttore, quello che mi ha insegnato a mettere entusiasmo e gioia nel fare questo mestiere è stato indubbiamente Claudio Abbado.
Quindi, Ulivieri, mi pare di capire che per fare bene questo lavoro occorre divertirsi?
Sì. È necessario. La parola chiave è “gioia”; Abbado, prima di entrare in buca d’orchestra, ci guardava tutti quanti e diceva: “divertiamoci!”. E questa è la chiave, divertirsi noi per far divertire ed emozionare il pubblico.
Allora non vediamo l’ora che arrivi il 31 gennaio per poter “divertirci” ed emozionarci nell’ascoltarla, al Teatro Sociale.
Certo! Vi aspetto numerosi!

Il debutto oltre 200 anni fa
Il Barbiere di Siviglia, opera di Gioachino Rossini, sarà in scena a Trento il 31 gennaio 2025 alle ore 20 e il 2 febbraio alle ore 16, al Teatro Sociale. Il libretto di Cesare Sterbini, basato sull’opera di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, debutta al Teatro Argentina di Roma il 20 febbraio 1816.
Il cast vede protagonisti il Conte d’Almaviva interpretato da Pietro Adaini, Don Bartolo (Fabio Capitanucci), Rosina (Mara Gaudenzi), il barbiere Figaro (Gurgen Baveyan) e il maestro di musica Don Basilio, interpretato da Nicola Ulivieri. Completano il cast Francesca Maionchi nel ruolo di Berta, Gianni Giuga in quello di Fiorello e dell’ufficiale, e Julien Lambert nel ruolo di Ambrogio.
La direzione musicale è affidata ad Alessandro Bonato, mentre la regia è curata da Fabio Cherstich. Le scene sono a cura di Nicolas Bovey, i costumi di Arthur Arbesser e il lighting design di Marco Giusti. Il Coro Ensemble vocale Continuum, diretto da Luigi Azzolini. L’evento si inserisce nella Stagione della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento.
La produzione è realizzata dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena.