Leone d’Oro alla 77esima Mostra del cinema di Venezia, vincitore di due Golden Globe e di tre premi Oscar, “Nomadland” di Chloé Zhao è il film più discusso e apprezzato degli ultimi mesi. Ma da cosa deriva questo smisurato successo? Siamo davvero di fronte ad un capolavoro, a una pietra miliare del cinema internazionale? La risposta, come spesso accade, nasce e matura un po’ al di fuori di sceneggiatura, immagine e regia, trovando spazio in una vasta serie di correlazioni sociali, tutte più o meno legate a stretto giro al periodo pandemico nel quale abbiamo vissuto e viviamo.
La storia è quella di Fern (interpretata da Frances McDormand), vedova di mezza età costretta a lasciare il lavoro di sempre a causa della chiusura della ditta e, di conseguenza, anche la propria cittadina, la piccola Empire, nel Nevada, per sposare una vita nuova, diversa, “on the road”. Non una “senza tetto” ma una “senza casa”, come lei stessa chiarisce: una donna che accumula un impiego stagionale dopo l’altro, spostandosi verso Ovest, verso la California, a bordo del suo van, ribattezzato, “aVANguardia”. Uno spostamento che segue le tracce dei pionieri, in cerca di successo, di nuove possibilità, in un tempo in cui tutto questo è costantemente promesso, e poi però troppo spesso negato. Da Amazon ai fastfood, Fern è simbolo dell’America – e del mondo occidentale tutto – che, piegato da una crisi dopo l’altra, non sa trovare spazio agli specializzati 50enni, forse ancora ancorati a un’idea stantia di “posto fisso”, forse ancora troppo poco “digitalizzati”. Ma è anche, allo stesso tempo, portavoce di tutti i disoccupati ben più giovani (i dati Istat parlano di 841mila senza impiego in più in Italia, tra il 2019 il 2020), i tanti laureati rimasti a casa o dediti all’agricoltura, luccichio di un ritorno ecologico, forse soprattutto fallimento di una società che istruisce e non sa collocare. Fern è madrina di un periodo, di un’epoca, di pensioni che slittano a quota 101; è una donna che sceglie la vita nomade, la casa in un furgone, ma lo fa per necessità. Si sente emarginata, si sente incompresa, lascia indietro beni e affetti, riducendo la vita all’osso. Non è una poeta beatnik, cerca solo un posto nel mondo. Ed è in questo, forse, che più che mai si fa maestra della riappropriazione del rapporto con se stessi e con la propria solitudine, del rinnamoramento per i piccoli riti quotidiani e per la bellezza della natura, della necessità di vivere e non “lasciare la barca parcheggiata nel vialetto”.
Eppure, Fern è al tempo stesso un personaggio ostico, ruvido, di difficile empatia. Manca, nonostante le ottime premesse, la vera poesia, il vero calore, il sentire viscerale che Frances McDormand non sa qui portare in scena, finendo per essere lei stessa, prima ancora che il suo personaggio, la vera protagonista, la premiata. Lei, chiamata “antidiva” per le sue rughe solcate, per la sua partecipazione agli Oscar spettinata e col capello grigio – però, si badi, vestita Valentino. Lei, che è diventata inconsapevolmente e involontariamente simbolo di un femminismo che cerca nuovi spunti. Ma qualcuno se la ricorda Anna Magnani?
Ecco com’è perdere il lavoro a 59 anni |
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“Io, Daniel Blake” è una scritta in vernice spray che capeggia sul muro dell’ufficio di collocamento, è l’affermazione dell’individualità di un uomo, burocratizzato da un sistema che lo considera al tempo stesso abile e inabile al lavoro. “Io, Daniel Blake”, pellicola Palma d’oro a Cannes nel 2016, firmata Ken Loach, ci racconta un percorso simile a quello di “Nomadland”, la perdita dell’impiego da parte di un 59enne, la battaglia per non cadere dimenticato in un magma spersonalizzante e, soprattutto, la nuova necessaria ricerca di un posto nel mondo, nella società. Una lotta tipica per il cinema di Loach che, facendo proprio lo staniamento brechtiano, ci spinge costantemente al senso critico al di là della commozione; che, politicamente attivo tra le fila della sinistra estrema inglese, ci racconta di ex-galeotti, di emarginati, di storie di classe (“Piovono pietre”, 1993), di commedie romantiche a fondo sociale (“My Name is Joe”, 1998), dando voce a chi non ha scelta. |