Oltre l’integrazione, un incontro di molti destini

Nekagenet “Neka” Crippa, insieme al fratello Yeman, è uno degli “astri” dell’atletica italiana. Con la medaglia di campione italiano di mezza maratona in bacheca, la vicenda di Neka rappresenta l’esempio di ciò che lo sport può fare. «Sono felice di quello che sono diventato, se fossi rimasto in Etiopia non so cosa mi sarebbe successo» ci ha confidato Neka. Arrivato dall’Etiopia in Trentino nel 2005, è stato adottato all’età di 11 anni insieme ad altri tre fratelli. «Ricordo bene il viaggio, avevo tanti dubbi. Prima della partenza pensavo addirittura di non voler più partire», ricorda l’atleta. Dagli altopiani etiopi al paese di Montagne nelle Giudicarie il viaggio è lungo: «Faceva tanto freddo, c’era tanta neve come non ne avevo mai vista». Neka ritiene che lo sport offra uno “spiraglio” speciale nel cuore delle persone: «La gente conosce la fatica che si fa per ottenere i risultati sportivi e si ammorbidisce, – riflette l’atleta – Lo sport permette di essere riconosciuti in maniera positiva». Non sono mancati gli episodi sgradevoli: «Durante le gare qualcuno gridava insulti razzisti. Ma sono insulti dettati dalla rabbia. In generale ho sempre raccolto rispetto, anche perché mi sono sempre comportato bene». 

Neka si addolora quando ricorda la sua connazionale Agitu: «Non la conoscevo, ma la sua morte è stata un grande dolore. Pensavo alla sua straordinaria impresa, a come fosse stata accolta in maniera stupenda». Gli chiediamo quale consiglio dia ai trentini per affrontare meglio il processo dell’accoglienza, che è reciproca: «La gente in Trentino è bravissima, – assicura Neka – Chiederei di essere un po’ meno prevenuti, di giudicare la persona in base a come si comporta, non facendosi condizionare dall’origine o dal colore della pelle». Agli stranieri invece consiglia pazienza: «Oltre a rispettare le regole, invito gli stranieri a non giudicare immediatamente un italiano che non li tratta bene come un razzista. Bisogna comprendere che tante persone non hanno mai viaggiato e non sanno nemmeno dov’è l’Etiopia. Ma spesso queste persone una volta che ti conoscono ti amano come un figlio».«L’ingrediente imprescindibile per un incontro riuscito è la conoscenza della lingua. Conoscere l’italiano permette di conservare un posto di lavoro e di diventare parte di questa comunità». 

Frédéric Kabele Camara è il responsabile della struttura per richiedenti-asilo minorenni di via Caproni a Trento per l’Associazione Provinciale per i Minori. Essendo originario della Guinea, conosce entrambi i “versanti” dell’esperienza del migrante: sa quali sono le sfide poste a chi arriva in Trentino e sa quali sono le speranze di chi cerca qui una nuova casa. «Integrazione significa adeguarsi il più possibile sia alle norme che ai costumi che si trovano nel paese che accoglie – riflette Frédéric – Ai “nuovi arrivati” consiglio di prendere spunto dalla mia storia. In Guinea ho trenta fratelli, eppure solo io ho avuto l’occasione di vivere in questa città con una grandissima qualità della vita. E ci sono arrivato grazie allo studio». Arrivato a Genova nel 2004 per studiare scienze politiche, l’obiettivo di Frédéric era quello di diventare un diplomatico: «Volevo studiare la diplomazia per tornare in Guinea, ma visti i continui colpi di Stato, mi sono stabilito a Trento nel 2013 dove ho iniziato a lavorare per Appm». Frédéric ipotizza che forse più del colore della pelle ad essere un fattore di discriminazione sia la provenienza dall’Africa: «All’università ho scoperto che quando docenti e studenti “scoprivano” la mia origine guineana provavano spesso curiosità, ma qualche volta nascevano anche delle incomprensioni. 

Tutto ciò non capitava quando facevo finta di essere un francese o un giocatore di basket americano», ricorda Frédéric sorridendo. Frédéric individua gli ostacoli principali frapposti dalle istituzioni al processo di accoglienza e legalizzazione: «Negli ultimi anni, la giunta Fugatti ha rifiutato i fondi europei che servivano ai corsi d’italiano per stranieri. E c’è stato un taglio drastico delle strutture d’accoglienza. L’esito di queste scelte lo si vede in piazza Dante». Frédéric indica nell’esperienza di Agitu un modello straordinario di integrazione: «Provo un’enorme amarezza per la sua fine. Lei era un esempio per tanti di noi. Ha voluto aiutare un fratello africano, ma alcuni di loro seguono la “legge della strada” e sono capaci di fare del male anche solo per uno sguardo storto. Ma con un adeguato sostegno psicologico anche queste persone possono migliorare».

Prescilia Komba Kouka, laureata magistrale in Studi Internazionali originaria del Gabon, è arrivata in Trentino nel 2011 a seguito di una scelta presa quasi a sorpresa: «Pensavo di andare in Canada. Ma ho studiato sociologia nel Gabon ed ho deciso di puntare su Trento, città tranquilla per studiare e che ospita un corso prestigioso in Studi internazionali. 

Mi sono laureata con una tesi sulle politiche economiche portate avanti in Africa dalla Banca Mondiale». Prescilia ammette con amarezza la sua difficoltà ad inserirsi nella società trentina. Nonostante il suo curriculum di studi deve accontentarsi di lavori per cui è sovra-qualificata: «Dopo l’università ho lavorato per una cooperativa dove mi occupavo della cura delle persone anziane. Insomma, dovevo fare la badante». Prescilia si stupisce di come non riesca a trovare un posto adeguato alle sue competenze: «Il Trentino, attraverso le borse di studio, ha investito 25mila euro su di me. E mi lascia così?». Il sogno di Prescilia è quello di diventare una donna “di carriera”: «Vorrei lavorare nella cooperazione internazionale e nelle Ong. Ma devo diventare imprenditrice di me stessa: è il destino di molti africani, così come di molti italiani. Non possiamo accontentarci dei lavori che troviamo». Il suo inserimento nella società trentina non è stato facile, anzi è stato costellato da episodi dolorosi: «Soffrivo lo stereotipo diffuso della donna africana. Alcuni uomini mi fermano e mi chiedono “quanto voglio”, pensando che io sia una prostituta. All’inizio piangevo sempre». Riflettendo sul tragico destino di Agitu, Prescilia sottolinea come il suo esempio sia tutt’altro che diffuso: «Lei era riuscita a inserirsi. Ma non vale per tutti. Vediamo quello che succede in piazza Dante, con tanti africani dediti allo spaccio. Perché accettare delle persone quando mancano i progetti d’inserimento? Vanno regolamentati i flussi migratori e va insegnata la lingua. Le persone che si trovano in piazza Dante spesso non sanno nemmeno il francese o l’inglese, ma solo la loro lingua nativa. Che integrazione ci può essere?».

Nibras Breigheche, 44 anni, trentina di origini siriane (figlia dell’imam del Trentino-Alto Adige, Aboulkheir Breigheche) è una “murshida”, ovvero una guida religiosa islamica, la prima in Trentino e tra le prime in Italia. Ci ha raccontato il protagonismo inaspettato delle donne musulmane all’interno della loro comunità. «Nel Corano si sottolinea l’importanza della collaborazione tra uomini e donne nella gestione della vita religiosa della comunità», ha spiegato Breigheche. 

La sua esperienza può aiutare a mettere in discussione alcuni luoghi comuni, tra cui quello della “sottomissione” della donna musulmana all’uomo: «Come murshida conduco le preghiere, coordino i gruppi di fedeli, insomma faccio tutto quello che fa un imam, a parte la celebrazione delle cerimonie rituali», sottolinea Breigheche, che nel 2011 è stata tra i fondatori dell’Associazione Islamica Italiana degli imam e delle guide religiose. L’attivismo di Nibras la porta spesso a confrontarsi con il mondo laico, raccontando la sua particolare esperienza nelle scuole: «Vengo spesso invitata nelle scuole in qualità di esperta di religione islamica. Io stessa sono insegnante di arabo e di italiano per stranieri. Noto che le domande degli studenti spesso vertono proprio sulla condizione femminile nel mondo musulmano – evidenzia Breigheche – Io faccio sempre notare che nell’Islam la donna ha gli stessi diritti dell’uomo, perché i precetti religiosi valgono per tutti. Le differenze riguardano soprattutto l’aspetto esteriore ed il velo, che però segue ad una scelta personale e quasi mai, per fortuna, ad un’imposizione».

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Pubblicato da Fabio Peterlongo

Nato nel 1987, dal 2012 è giornalista pubblicista. Nel 2013 si laurea in Filosofia all'Università di Trento con una tesi sull'ecologismo sociale americano. Oltre alla scrittura giornalistica, la sua grande passione è la scrittura narrativa. È conduttore radiofonico e dal 2014 fa parte della squadra di Radio Dolomiti. Cronista per il quotidiano Trentino dal 2016, collabora con Trentinomese dal 2017 Nutre particolare interesse verso il giornalismo politico e i temi della sostenibilità ambientale. Appassionato lettore di saggi storici sul Risorgimento e delle opere di Italo Calvino.