Sette erano le meraviglie del mondo che i greci e i romani ritenevano i più belli e significativi artifici dell’umanità del tempo. Tra i tanti elenchi compilati, quello passato alla storia – e parliamo del III secolo a.C. – racchiude il Faro di Alessandria, il Colosso di Rodi, la piramide di Cheope, il tempio di Artemide a Efeso, il Mausoleo di Alicarnasso, i Giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia. Sette sono le meraviglie che il mondo moderno ha indicato: la grande muraglia cinese, la statua del Cristo Redentore a Rio de Janiero, Machu Picchu in Perù, Petra in Giordania, l’italiano Colosseo, il Taj Mahal indiano, Chichen Itzà in Messico. Ma con il passaggio dalle civiltà dominate dalle parole a quelle in cui l’immagine svolge un ruolo fondamentale se non esclusivo, ha ancora senso parlare di “meraviglia”? Si crea o si produce ancora “meraviglia”?
Il concetto di meraviglia va di pari passo con il fascino dell’eccezionale, dell’inatteso, dell’improvviso. È un sentimento inaspettato come la sindrome di Stendhal, uno star male, un malessere diffuso – un disturbo psicosomatico, dicono gli psicologi – che si manifesta quando ci si trova di fronte a opere d’arte o architettoniche di notevole bellezza. Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle, scrittore, questa sensazione di sconvolgimento estremo la provò entrando nella basilica di Santa Croce a Firenze.
Oggi siamo immersi nell’immagine, viviamo in un mondo in cui miliardi di icone vengono gettate nello stesso calderone ribollente, senza distinguere l’una dall’altra: dalla figura della grande attrice all’ultimo modello di automobile, dalla pasticca per il mal di gola all’esecrabile sterminio iraniano di chi aspira alla libertà individuale, dalle mine russe alla fame sterminatrice nel deserto sudanese. Un enorme mestolo – ma non riusciamo a scorgere chi lo tiene in mano – rimescola continuamente questo amalgama universale e globale. Di fronte a questa tempesta quotidiana forse è inutile cercare di mettere un ordine, di classificare, di discernere cosa è buono e cosa no (e chi lo decide? quali sono i parametri?). Morte e sepolte le vecchie ideologie, questo calderone celtico – ormai diventato autonomo e indipendente rispetto a chi aveva creato l’icona – si pone come enorme e mondiale vasca (o acquitrino) dove avvengono scambi, metamorfosi, sovversioni, dimenticanze, accelerazioni e improvvise frenate. Aveva sicuramente ragione Guy Debord quando nel 1967 pubblicò un piccolo saggio, La società dello spettacolo, che conteneva una sconvolgente premonizione: sulla scia della critica di Herbert Marcuse contenuta in L’uomo a una dimensione (1964), si tracciava criticamente la strada percorsa dalla società capitalistica e da quella russo-comunista mettendo in evidenza che la società è diventata un grande palcoscenico sul quale si recitano giornalmente le bellezze ma anche le tragedie del mondo. Spettacolarizzando il tutto, dal lavoro al tempo libero, dall’arte all’economia, Debord si schiera con Marcuse nel denunciare la società creatrice di falsi bisogni che hanno integrato gli individui nel sistema esistente di produzione e consumo attraverso i mass media, la pubblicità, la gestione industriale e le modalità del pensiero contemporaneo (siamo nel 1964, pensieri di un’attualità sconcertante).
Allo svilimento della meraviglia stendhaliana i nostri due autori ponevano come argine del sensato contro l’insulsaggine un comportamento critico – dimostratosi alla fine spettacolare pure lui – o, per Marcuse, il grande rifiuto (una difesa del pensiero negativo come forza dirompente contro il positivo prevalente).
Cosa oggi distingue un’icona da un’altra? Cosa ci meraviglia ancora? Quando lo stupore ci attanaglia il cuore prima della mente? Una delle risposte potrebbe essere la creazione di una guida che ci conduca in un viaggio nella galassia delle meraviglie. Oppure una soluzione drastica, spegnere tutto.