Il paesaggio è, da sempre, uno dei temi più gettonati dagli appassionati di fotografia ed è tra i paesaggisti che troviamo le più alte percentuali di depressione post-scattum. L’immagine su cui noi vorremmo condensare la nostra esperienza, sia essa delle cime dolomitiche che del tempio di Buddha nella foresta birmana, potrà riprodurre soltanto tre cose: luci, colori e forme, benché la nostra esperienza sia ben più ricca, composta com’è anche da suoni, odori, tepori, rumori, ricordi e sensazioni di vario genere. Il motivo della nostra delusione deriva spesso da qui: al momento dello scatto non abbiamo tenuto conto dei limiti del mezzo ed abbiamo visto (creduto di vedere) nel mirino della fotocamera anche elementi a cui l’obiettivo è inguaribilmente insensibile. Per non provare quella frustrante sensazione dobbiamo attivare un’attenzione fotografica superiore, capace di distinguere ciò che è da ciò che non è riproducibile fotograficamente. È necessario esercitare la propria razionale capacità di discernimento, chiedendoci sempre, prima di scattare una foto, cosa si stia per riprendere.
Si potrebbe scoprire che la molla che ci ha fatto impugnare la macchina è costituita dagli effluvi della magnolia in fiore sotto la quale abbiamo sostato, e magra potrebbe essere la soddisfazione nel constatare il risultato della nostra ripresa.
La fotografia di paesaggio, quantomeno quella non banalmente descrittiva, richiede concentrazione e un certo stato di “grazia” percettiva, grazie alla quale sappiamo riconoscere luci particolarmente loquaci, nessi tra corpi minerali, vegetali, animali, tra acqua terra e cielo, che sfuggono alla vista distratta. Come si raggiunge quello “stato di grazia”? Senza fretta, senza ansia, attraverso un silenzioso e intimo esercizio di osservazione del mondo.