Paradiso obbligatorio

“Baraye” è una canzone composta dal giovane musicista iraniano Shervin Hajipour.  Significa “per” e ogni strofa è dedicata al motivo per cui in Iran le persone, soprattutto i giovani, sono scesi in piazza in queste settimane e anche nel corso degli ultimi anni (perché le manifestazioni al centro dell’attenzione adesso sono solo le ultime di una lunga serie di proteste che hanno scosso il Paese recentemente).

Tra i vari “per” elencati dalla canzone ce n’è un lungo elenco, tra cui “per questa aria inquinata” e “per questa economia dittatoriale”- ce n’è uno che mi ha toccato più di tutti:  “per questo Paradiso Obbligatorio”. È proprio vero: in Iran il paradiso è un obbligo, un affare di stato. 

Erano obbligati a guadagnarsi il paradiso gli shahid, i martiri, i ragazzi appena sedicenni che sono stati inviati al fronte nel decennio della guerra Iran-Iraq. Usati per detonare le mine antiuomo, alle famiglie rimaneva la magra consolazione che i loro figli si fossero guadagnati un posto in Paradiso.

Quando tre anni fa è salito un giovanissimo poliziotto della morale (Gast Ershad) sull’autobus di turisti in cui viaggiavamo, si è lamentato perché alcune donne avevano il velo abbassato. Ci ha detto “Per cosa sono morti, i nostri martiri, se non vi mettete il velo?”.

Sono obbligate oggi a guadagnarsi il Paradiso anche le donne velandosi correttamente, i giovani rispettando la distanza fisica se non sono sposati, i ragazzi non indossando pantaloni corti, gli iraniani tutti nello spazio pubblico, rispettando le leggi dello stato che coincidono con le leggi della religione sciita.

Sarebbe interessante, se non fosse un incubo. 

All’interno di questa grande facciata, in cui tutto converge verso la ossessiva ricerca di un Paradiso collettivo, vi è prostituzione come abuso di droga; corruzione come ingiustizia sociale; scempi ambientali come discriminazione dei rifugiati stranieri, in particolare afgani; privatizzazione della sanità e burocratizzazione dello stato; vi è depressione e uso di psicofarmaci; vi sono quartieri slums, e ville da milioni di dollari. Vi è tutto ciò che di male c’è nelle nostre società occidentali. Ma con l’obbligo di perseguire il Paradiso stando immersi in un inferno. 

Questo è il vero incubo.

Eppure… La Repubblica Islamica d’Iran, che piaccia o no, è nata da un progetto politico. Era un progetto che non poteva essere improvvisato, ma che si è sviluppato nel corso di più decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, con riferimenti intellettuali di grande spessore come Ali Shariati e Jalal Al-e-Ahmad e con figure carismatiche che hanno segnato la storia del Novecento, come l’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Il progetto rappresentava la possibilità che la religione islamica, che rappresentava una tradizione consolidata nel Paese, fosse anche una strada politica per l’indipendenza dalle sfere di influenze delle super potenze: l’America e la Russia. A leggere gli scritti dell’Imam Khomeini oggi, non si può non pensare che si trattava di una sorta di marxismo islamico, con punte di spiritualità che avevano risvolti politici dirompenti. Avessi avuto vent’anni nel 1975, sarei rimasta affascinata anche io da quel tipo di ideologia, lo ammetto. 

Ma come tutte le grandi ideologie, non ha funzionato. A quasi 50 anni dalla nascita della repubblica islamica, tutto il peggio delle economie neoliberiste ha penetrato ogni strato del Paese. Più che una terza via, oggi vivere in una Repubblica Islamica sembra rappresentare la via del caos. È un Paese “occidentale” a tutti gli effetti, ma camuffato da Paese islamico. 

Per questo, per i bambini afgani nel racket dell’accattonaggio, per il leopardo persiano che si sta estinguendo, per la corruzione, per le prigioni piene di intellettuali, per un’economia spietata e si, anche per il velo… Per questo si protesta. Cosa verrà dopo? Non si sa, sta volta non c’è un progetto politico. Ma forse, tutto sommato, col senno di poi, è meglio così.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).