“Parthenope”: Trento e il paradigma dell’espiazione

La scena in cui si intravede la città di Trento. È l’ultimo giorno di lavoro per Parthenope, che presto tornerà a Napoli

Un lieve malanno mi ha offerto in questi giorni l’occasione di vedere (finalmente) “Parthenope,” l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Non aspettatevi una recensione, però: non ne sarei capace. Mi limito a un’osservazione, una curiosità che, in modo inatteso, collega la Napoli del film al capoluogo trentino.

Dunque. In una città eterna, luminosa, la vicenda di Parthenope – interpretata da una magnetica Celeste Dalla Porta – si snoda tra passato e presente. La protagonista, come la sirena del mito, nasce dall’acqua, ma non è né mito né creatura marina: è una donna di una bellezza ipnotica, che incatena chiunque la incontri. Un film, si potrebbe dire, sul desiderio che si sfugge onde evitare – realizzandolo – di  consumarlo.

(Tra parentesi: amo Sorrentino, il suo incedere barocco, i dialoghi per aforismi, le citazioni, gli omaggi, i personaggi impossibili. Lo amo forse perché il suo narrare per immagini assomiglia molto al modo in cui scrivo io.)

Ma ecco la curiosità! Nel film, Parthenope è assistente di Antropologia del professor Devoto, un Silvio Orlando come sempre superlativo. Ormai prossimo alla pensione, questi suggerisce alla giovane di fare un concorso per una cattedra a Trento. Un consiglio che, nel corso della narrazione, si rivela cruciale: Parthenope, ormai più matura (interpretata in tarda età da Stefania Sandrelli), si trasferisce a Trento attorno al 1982, un luogo che diventa il suo destino, il suo esilio, la sua espiazione.

Ma perché proprio Trento? È stata questa la domanda che mi ha tormentato a lungo dopo la visione. Perché Sorrentino e il suo sceneggiatore hanno scelto questa città? Perché è fredda? Perché porta con sé l’ombra di un passato asburgico? È possibile. Ma c’è di più. Nel 1982, il decennio del terrorismo era ancora un’eco dolorosa, e come ben sappiamo l’Università di Trento, specie la facoltà di Sociologia, non era estranea a quelle vicende. Forse Sorrentino voleva evocare quella ferita, quei ricordi. (Una scena mostra l’assalto degli studenti alla polizia, davanti all’ingresso di una facoltà.) O forse, semplicemente, in un angolino dell’immaginario collettivo di chi non è di queste parti, Trento rappresenta qualcosa di diverso: la distanza. Non solo fisica, ma anche simbolica. Trento, nel film, è una terra di confine, quasi un limbo. Un luogo che “punisce” con la sua lontananza, che obbliga a guardare indietro e riflettere.

E qui scatta un timore personale. Sorrentino, con la sua abilità di trasformare luoghi in simboli, non avrà forse segnato Trento come il nuovo paradigma dell’espiazione? Come Bisceglie evocava i manicomi o Canossa il pentimento, ora Trento rischia di essere associata al freddo, alla lontananza, alla sconfitta? Una macchia nel sentire comune che nessuna classifica di vivibilità o campagna turistica potrà mai cancellare.

Va bene, lo ammetto: è un’esagerazione. Ma che ci vogliamo fare? Sono questi il dono e la maledizione del cinema di Sorrentino: un’immagine che non si dimentica più.

E se non si trattasse di un’esagerazione?

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.