Castel Belasi: codici dall’abisso del tempo

Il 27 maggio nelle splendide sale di Castel Belasi a Campodenno ha aperto “Il Fato dell’Energia”, mostra personale di Stefano Cagol a cura di Emanuele Quinz. L’artista trentino riconosciuto a livello internazionale porta il visitatore in un viaggio visionario tra metafore universali, riti contemporanei, ghiacci e diluvi attraverso molteplici linguaggi, dal video alle installazioni, spaziando da rari lavori dell’inizio della carriera all’opera ora presente alla Biennale di Venezia, vera sorpresa in mostra.

Con questa personale, Castel Belasi si è presentato al pubblico con un programma espositivo strutturato e permanente e diviene Castel Belasi Cultura, luogo privilegiato di fruizione delle arti, dopo cinque anni pilota in fase di ultimazione del lungo intervento di restauro che erano culminati con una selezione di opere dalla Collezione Panza di Biumo. Oltre alla sezione dedicata a mostre temporanee d’arte contemporanea di respiro internazionale, la proposta espositiva include un percorso permanente consacrato alla fotografia con pezzi provenienti a rotazione dall’Archivio Fotografico Storico Provinciale e una project room dedicata a mostre di artisti under 35.

La mostra di Stefano Cagol presenta un esteso e inedito excursus nella sua consolidata ricerca – da poco premiata dall’Italian Council del Ministero della Cultura – attraverso una ventina di opere video, fotografiche, luminose, sonore e installative, da quelle più recenti fino a lavori datati tra metà anni Novanta e inizio anni Duemila, testimoni dello spirito coerente e anticipatore di questo artista, da sempre impegnato a sviscerare e distillare attraverso un linguaggio evocativo complesse questioni dell’oggi e del nostro stare nel mondo, tra fenomeni naturali e impatto delle nostre scelte.

La Sala detta “Delle metamorfosi”, decorata da un pittore di area tirolese con scene tratte dall’opera di Ovidio e raffiguranti contrapposizioni tra mondi diversi come “Apollo e Pitone” e “Perseo e la Medusa”

Dà il titolo alla mostra il video “The Fate of Energy” del 2002, che apre ai molteplici significati del termine energia, al tempo stesso generatrice e distruttrice, rimandando a sua volta a un capitolo del “Saggio sui fenomeni estremi” del filosofo Jean Baudrillard e risultando quanto mai attuale, così come “Monito. Monition. Mort Nucleaire” del 1995.
L’opera più recente – e quella più attesa – è “Far before and after us”, che Cagol ha creato per la Biennale di Venezia, dove viene esposta all’interno della mostra dello stato di Perak-Malesia su simbiosi indigena e narrazione della natura (agli Archivi della Misericordia fino a novembre), come unico artista internazionale invitato insieme a sei artisti malesi. Nel video, protagonista è un rituale contemporaneo, sospeso tra oscurità e luce, fuoco e ghiaccio, miti del passato, incertezze del presente e sfide di futuri al di là del tempo e dello spazio. È stato realizzato in una valle dolomitica patrimonio UNESCO, la Val di Tovel, poco lontano da Castel Belasi e dallo studio dell’artista, che da quasi vent’anni ha deciso di vivere in Val di Non.

“The ice monolith”, Venezia, 2013
“The fate of energy”, 2002

Una chiave di lettura biografica individuata nel legame con le Alpi è l’altra grande novità di questa mostra, la prima in Val di Non dedicata a Cagol. Lo sottolinea il curatore Emanuele Quinz, affermando che “Queste opere da una parte rivelano un legame profondo con il territorio delle sue origini e dall’altra esplicitano la funzione di denuncia dell’artista”. Cagol ammette di considerare le Alpi “una delle espressioni naturali che più chiaramente ci fa prendere coscienza dell’idea di tempo” e dichiara di essersi ispirato a quelli che il padre gli mostrava come “i ghiacci eterni”, ora quasi spariti, quando ha pensato l’opera per il Padiglione nazionale delle Maldive alla Biennale di Venezia del 2013, “The Ice Monolith”, allora uscita su New York Times e BBC, quindi entrata nell’immaginario collettivo tra gli interventi artistici attenti a questi temi.
Fanno da contraltare opere frutto di lunghi viaggi di ricerca e creazione, nelle quali lo stesso elemento del viaggiare è parte della pratica artistica di Cagol, divenendone un tratto distintivo. In mostra è il progetto “The Time of the Flood” che guarda al diluvio come summa di tutti gli sconvolgimenti e profeticamente è stato cominciato nel 2019. La serie di opere video che lo compongono è presentata in questa occasione per la prima volta in Italia, dopo la premiere al CCA Center for Contemporary Art di Tel Aviv lo scorso anno. L’altra opera fondata sul viaggio è “The End of the Border”, che portò Cagol nel 2013 per la Barents Art Triennale nell’Artico sul confine tra Norvegia e Russia, dove le autorità russe gli hanno negato che un raggio di luce attraversasse il confine.
Difficile dire qual è l’opera più blasonata in mostra, sicuramente quella più vista è il video della performance “Signal to the Future”, che nel maggio 2020 in piena pandemia è stato rimbalzato da innumerevoli tv di tutto il pianeta, raggiungendo l’enorme audience di oltre 430 milioni di spettatori.

“The end of the border (of the mind)”, Oslo, 2013

Nel 2022, Stefano Cagol, oltre a partecipare alla 59. Biennale di Venezia, cura il progetto “We are the Flood. Piattaforma liquida su crisi climatica, interazioni antropoceniche e transizione ecologica” del MUSE Museo delle scienze di Trento, a Bergen in Norvegia sarà artista in residenza a BEK e in mostra alla Kunsthall 3.14, e la Galleria d’Arte Moderna di Verona gli dedica (fino al 30 settembre) la Primaparete. La mostra a Castel Belasi rimarrà aperta al pubblico fino al 30 ottobre. 

Come codici provenienti dall’abisso del tempo

di Pino Loperfido

Quando Ludwig von Beethoven scrisse che “ogni vera creazione d’arte è indipendente da colui che l’ha realizzata ed è più potente dell’artista medesimo” non poteva naturalmente non fare riferimento anche a se stesso. Le note che fiorivano dal suo pennino non erano semplici segni musicali, ma segnali provenienti dall’abisso del tempo e dello spazio a cui anche lui faceva fatica ad assegnare un senso. Ed è quella la frase che ha continuato a girarmi in testa durante tutta la visita fatta nel rinnovato Castel Belasi, comune di Campodenno, Val di Non. L’occasione è stata la visita a “Il fato dell’energia”, mostra personale di Stefano Cagol che è un vero e proprio excursus su tutto il suo ventennale percorso di ricerca.

A guidarmi, la sensazione, cioè, che nelle installazioni, nei suoni, nelle immagini, nelle video-performance vi fosse qualcosa di più della denuncia e del pur deciso e significativo impegno civile. Come il medium, come lo sciamano, anche l’artista secondo il grande musicista di Bonn è spesso inconsapevole di quel che va ricercando. E talvolta è costretto egli stesso a prendere coscienza della realtà “altra” scaturita dall’ispirazione.
Da sempre, i temi della ricerca artistica di Stefano Cagol sono quelli con cui stiamo facendo i conti in questi mesi: il rischio nucleare e quello ambientale. In questo, all’artista trentino va dato atto di impressionante preveggenza.
Tuttavia chi scrive, partendo dall’affermazione di Nikola Tesla ”Se desideri scoprire i segreti dell’universo devi pensare in termini di frequenza e di vibrazione”, si è inventato un percorso interpretativo ancora più universale e biologico, di cui si vuole dare qui conto, limitatamente a due delle opere esposte. Un percorso che prende corpo a partire dal paradigma quantistico di inizio ‘900: non esiste nessun oggetto al mondo che sia isolabile. Tutto è connesso. Tutto è vibrazione, a partire dall’attività neuronale del nostro cervello, in connessione con elettroni e fotoni e tutte le altre particelle, onde che comunicano e si influenzano reciprocamente anche a grande distanza. Le nostre stesse cellule vibrano dando origine ad una sorta di codice comportamentale. Insomma, non è certo un mistero che gli esseri viventi – piante e umani compresi – siano parte della natura vibratoria del cosmo.

Una forma comunicativa ma anche di interazione biologica su cui ho potuto riflettere ascoltando incantato “Monito”, l’opera del 1995 in cui Cagol ha “dilatato” il suono di un’esplosione nucleare, rallentandolo progressivamente fino a milioni di volte. Il risultato ha del clamoroso, avvicinandosi al suono di un violoncello che esegue una struggente melodia, quasi un “canto di morte”, che così tanto mi ha ricordato la solennità di Mstislav Rostropovich davanti al muro di Berlino nel 1989. Dalla deflagrazione al pentagramma. L’artista funge in questo caso da traduttore, adattando il linguaggio, rendendo il sordo boato “comprensibile” alla nostra percezione.
Un po’ quello che avviene con “Bouvet Island”, in cui la risonanza di fase non è più nel registro sonoro, ma in quello visivo. Un ammasso quasi informe di lamiera che Cagol ha piegato a mano, “fino a farsi sanguinare le mani”, particolare non da poco, per denunciare lo spettro nucleare, che però inaspettatamente si è trasformato in qualcos’altro. Quanti di energia della radiazione elettromagnetica fornita dal sole, che bacia per tutto il giorno quella particolare sala di Castel Belasi, si affacciano improvvisi sulle antiche pareti, come spettri, come creature di altri mondi, oppure come crittografie, messaggi ultradimensionali. La scultura cessa di essere oggetto ed ecco che si trasforma in macchina ricevente. Apparecchio atto a decriptare quel che la nostra stella ha da comunicare al genere umano, inviando fotoni nel complesso apparato visivo, facendo quindi “danzare” i microtuboli delle cellule nervose al ritmo di impulsi radioelettrici, parlando infine alle dinamiche più imperscrutabili della nostra biologia. E della nostra anima.

9 agosto, raggio di luce per la pace

Sparizione dei ghiacci, guerra, crisi climatica, questioni energetiche: l’invito a riflettere sulle complessità del nostro presente e sul nostro futuro viene distillato dall’artista nell’azione tanto potente quanto essenziale di proiettare una linea orizzontale di luce bianca che oltrepassa le vallate divenendo visibile da decine di chilometri di distanza. Dopo quasi dieci anni Stefano Cagol ha deciso di compiere nuovamente questa azione dal titolo “The End of the Border (of the mind)”, la fine del confine della mente, dopo aver vinto con essa il Premio Terna per l’Arte Contemporanea e dopo averla attuata per l’ultima volta nel 2013 sul confine norvegese-russo. Quest’anno, punto di partenza del monumentale segno luminoso sarà proprio Castel Belasi, per l’artista un punto di origine della luce emblematico, perché un tempo luogo della difesa, come iconico era il punto di partenza scelto per il viaggio della luce verso l’Artico nel 2013, che anche in quel caso attirò migliaia di persone e le Tv nazionali: la Diga del Vajont nel cinquantennale, simbolo della nostra ottusa illusione di piegare la natura a nostro uso. La data scelta questa volta è anch’essa significativa: il 9 agosto, giorno dell’anniversario di Nagasaki, al crepuscolo (dalle 21 alle 22), per ricordare le guerre e l’atomica, per molti scienziati considerata all’origine dell’Antropocene, l’era dell’essere umano, e oggi quanto mai controversa.

Un recupero architettonico unico

Castel Belasi

Castel Belasi è situato nel Comune di Campodenno (1.500 abitanti), tra i frutteti della Bassa Val di Non, zona che può contare il maggior numero di castelli e residenze nobiliari del Trentino-Alto Adige. Il castello è ubicato nel borgo di Segonzone in posizione collinare e panoramica. La sua fondazione risale al tardo Duecento, nell’ambito dell’affermazione in Anaunia del Conte del Tirolo e delle famiglie di lingua tedesca, e incarna lo spirito di un territorio tra nord e sud, luogo di incontro e confronto. Il nucleo originario del castello, rappresentato dall’alto mastio pentagonale del palazzo centrale, risale al XIV secolo. Il complesso è protetto da una doppia cortina muraria e le fortificazioni più esterne furono erette nel corso del XVI secolo, mentre la cinta muraria maggiore, originaria difesa del castello, fu ulteriormente innalzata intorno alla metà del Quattrocento fino a raggiungere l’odierna imponenza. L’ultimo nobile che vi risiedette fu Arbogast Khuen Belasi, morto nel 1950. Proprietario di un terzo del castello a partire dagli anni Ottanta, il Comune di Campodenno ha rilevato nel 2000 la proprietà dell’intero complesso. Un lungo percorso di restauro restituisce oggi alla comunità trentina e non solo un antico maniero dal fascino intatto.

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