Dei custodi delle memorie degli antichi rioni di Trento, da quanto ne so, ne è rimasto uno solo, lui William Menestrina che, nato alla fine della Seconda guerra Mondiale, ha passato la vita a raccogliere documenti, articoli, fotografie, manifesti, oggetti che hanno finito col comporre un museo privato, l’unico museo sul rione più antico della città. L’ho conosciuto attorno al mitico Sessantotto, quando insegnavo nei corsi serali per geometri all’Istituto “Tambosi”. E me ne ricordai qualche anno dopo quando stavo preparando la pubblicazione di “Gente di quartiere”. Quando alle soglie del nuovo millennio ci fu una nuova edizione con un altro editore, che aggiornava la storia degli otto quartieri più antichi di Trento, a cominciare da Piedicastello, con i cambiamenti subentrati negli ultimi vent’anni, William (nel frattempo eravamo divenuti amici) fu di nuovo insostituibile con il suo archivio della memoria.
William è cresciuto in quella miscela di odori diversi che erano quelli di un’officina: del carburo, dell’acetile bruciata, del ferro arroventato, del fumo della fiamma ossidrica, dell’olio di macchina per raffreddare i pezzi… Il laboratorio era quello dell’Officina Verruca, nei pressi dell’Italcementi, fondato da tre soci nell’immediato dopoguerra: il padre Mario, fabbro esperto che veniva dalle Officine Silvestri. E non aveva dovuto andare al Fronte perché le Officine erano state militarizzate. Il secondo socio era lo zio Giovanni detto Ammiraglio, per via dell’esperienza del traghetto nei tre anni di assenza del ponte di ferro di Piedicastello, bombardato il 2 settembre 1943. Era costui uomo di bell’aspetto, elegante, che non avresti detto fosse un operaio. Il terzo era Luigi Vitti che veniva dalle Officine Chier, lungo i Fersina, su alla Busa.
Le cose andavano abbastanza bene quando, nel ’52, Giovanni detto Ammiraglio si staccò e mise su una ditta artigianale per conto suo. Nel ’58 il Vitti fu costretto a smettere per ragioni di salute. A mandare avanti l’azienda restò il solo Mario, e il ragazzo destinato a succedergli. William studiò all’Avviamento Industriale; poi fece due anni di Istituto Industriale e staccò. Val più la pratica della Grammatica! Ma fino a un certo punto. Lui lo capì anni dopo venendo a diplomarsi geometra al ”Tambosi” nei corsi serali, quando ci conoscemmo. Divenne bravo a leggere i progetti, a tenersi aggiornato. Per esempio, nella saldatura. Prima in quella ossidrica poi in quella elettrica, poi in quella ”a filo”, poi in quella elettro-ossidrica. Mancava solo quella laser, ma non ci arrivò mai perché troppo costosa . L’Officina Verruca crebbe fino a una decina di dipendenti: lavorava per enti pubblici come la Provincia, il Comune. Realizzava, ad esempio, tutti i cassonetti della nettezza urbana, i contenitori a spalla di cui erano dotati i netturbini, tutti gli spartineve che Mario Menestrina si ostinava a realizzare solo rigorosamente a mano , pezzi unici e indistruttibili.
L’officina Verruca fu costretta ad una malinconica chiusura una decina di anni fa. Nel frattempo William era diventato un protagonista di tante iniziative nel più antico rione di Trento: per esempio la zaterada, inventata da lui e dal suo grande amico Galliano, operaio nei cantieri comunali, poi purtroppo scomparso tragicamente.
La Zaterada, ovvero Il Palio dell’Oca, che nelle prime edizioni partiva da lontano, addirittura dal Pont Dei Vodi, presso Lavis e poi da Roncafort di Gardolo, crebbe via via sino a una settantina di equipaggi, popolando il fiume di imbarcazioni dopo secoli di assenza, ospitando anche equipaggi stranieri, facendo quindi conoscere Trento e questa corsa sul fiume anche all’estero. William fece il timoniere in decine di edizioni, piazzandosi molte volte, una volta anche riportando la vittoria, continuando sino a 50 anni, passando anche ad altri equipaggi, tanta era la sua passione, beccandosi anche del traditore, con tanto di graffiti scritti sui muri.
Il traghetto nel 1944-45, sullo sfondo S. Apollinare William Menestrina con i suoi zattieri
E poi c’è il suo museo privato, nell’ampio vano a pianoterra che guarda verso il Doss Trento. Ci sono foto d’epoca ingrandite: di scorci del quartiere, del traghetto, della piazza ancora sterrata col fondo rullato, tirato in fino, con i giocatori di balonzina, vestiti di bianco come il fondo della piazza. Poi le foto dei “ritratti di famiglia: del nonno paterno Leopoldo, classe 1874, in divisa da Kaiserjäger, con quattro nappe, quattro mazòcole (il massimo come tiratore scelto). Ma si ruppe una gamba scivolando in cantina e quando scoppiò la Grande Guerra il governo austriaco lo invitò a Linz a dirigere delle cantine. E lui era dovuto partire lasciando a casa la moglie Teresina e sei figli.
Poi c’è la foto di suo padre Mario, classe 1906, in divisa di artiglieria alpina, col suo fisico prestante di fabbro. E comincia la sfilata degli oggetti appesi ai muri della grande sala quadrangolare: una daga del Genio austriaco del 1880, una baionetta del 1910 , che forse si era macchiata di sangue negli assalti della Grande Guerra, sangue italiano. Ma lasciamo perdere le armi e diamo un’occhiata a un elemento di legno scuro lungo circa cinque metri. Era stato usato come cantinèla in una vigna. Ma si trattava di uno dei due remi-timone del mitico traghetto comandato dallo zio Giovanni, l‘Ammiraglio. E infine ci sono due pezzi amatissimi, unici. Il primo, appeso a una parete, è la carriola con la fogara della Narda Lavandara, leggendaria lavandaia che aveva lavato nel 1909 i panni del giovane Mussolini e lui, tanto per cambiare, non le aveva mai pagato il lavoro. La fogara di lamiera zincata serviva per riscaldare le mani gelate delle lavandaie nelle giornate invernali. La carriola caricava la fogara assieme alle lenzuola da lavare, in precedenza messe in ammollo: un monumento al lavoro durissimo di quelle lavoratrici femminili che erano le lavandaie di Piedicastello, le più brave della città, che lavavano lenzuola dei grandi alberghi, le uniche a sciacquare i panni non nelle rogge ma nella corrente del fiume, cantate dai poeti (compreso chi scrive…).
Ma che cos’è quel relitto metallico che deve pesare quintali, coi suoi chiodi dalla grossa capocchia sporgenti dalle travi segate, che sembra un pezzo di Torre Eiffel, collocato a dare il benvenuto subito dopo il portone d’entrata? Ragazzi, è qualcosa di unico, di mitico: è l’ultimo pezzo rimasto del vecchio ponte di Ferro distrutto dalle bombe. L’avevano collocato su un pianerottolo delle scale del Municipio come ricordo del bombardamento. “Ma che ci fa lì sulle scale, che nessuno lo guarda” disse William Menestrina a un sacco di gente del Comune, allo stesso sindaco Pacher con cui aveva un ottimo rapporto: ”Démelo a mi che el meto en d’el me museo!” E ruppe talmente le scatole che, pur di toglierselo dai piedi, alla fine glielo diedero…