Piera Detassis, Presidente e direttore artistico dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello, e prima ancora direttore della rivista Ciak dal 1997 al 2019, direttore della sezione “Premiere” del Festival Internazionale del Film di Roma e direttore artistico della manifestazione, direttore del Ciak Daily ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia, Presidente della Fondazione Cinema per Roma, Direttore dell’Ufficio Cinema di Modena, giornalista delle principali testate giornalistiche nazionali ed europee, autrice, scrittrice, saggista, critica cinematografica. Piera Detassis, nata a Trento, è una pietra miliare della cultura cinematografica, è la Signora del Cinema italiano, e grazie al suo grande lavoro e impegno per l’innovazione, l’arte cinematografica ha raggiunto livelli di qualità ed eccellenza assoluta.
Come è iniziato il suo percorso artistico nel mondo del cinema?
Sono stati fondamentali negli anni dell’adolescenza i cineforum di Trento al San Pietro e al cinema parrocchiale San Marco, prima abitavo in via Milano dove sono nata e poi in piazzetta Negrelli. Esco da una famiglia che non aveva nessuna relazione con il mondo culturale, mio padre Giulio imbianchino, mia madre Clotilde casalinga. Il papà era un artigiano che faceva di tutto, dai colori ai bassorilievi che lui dipingeva in uno spazio della cantina. Ha fatto 11 anni di guerra, crescendo in Boemia tra i trentini sfollati, c’è tutta una letteratura molto importante su questa generazione, sfamata dai contadini che gli austriaci mandavano lontani dalla linea del fronte. Mio padre aveva una venatura artistica, con il cognato aveva creato, scolpendoli, i burattini, scriveva romanzi a puntate per noi figli, bigliettini d’amore in rilievo e colorati a mano per mia mamma. Sono cresciuta nell’atmosfera della Facoltà di Sociologia a Trento, con ricordi importanti in un clima a volte oppressivo, se penso alle processioni del Corpus Domini, alle suore.
Qualche situazione particolare da rimarcare?
La scintilla di risveglio, come per tanti della mia generazione, è stata l’alluvione del ’66, l’impegno nel fango. Le occupazioni studentesche sono state uno shock e allo stesso tempo una evoluzione culturale, scappavo di casa e andavo in facoltà, nelle prime comuni, un gran cambiamento nella scuola e non solo. I cineforum sono stati la scoperta di un nuovo linguaggio cinematografico, le Nouvelle Vague, il cinema impegnato.
Ho scoperto di amare il cinema con un tema alle magistrali e all’Università sono stata molto fortunata, il mio insegnante di cinema è stato Gian Piero Brunetta, lo storico più importante di cinema che abbiamo avuto e che ha cambiato la storiografia in Italia, ho avuto una formazione che non potrò mai dimenticare e da lì è nato il mio modo di operare in questo mondo professionale a livello giornalistico e organizzativo.
Ho sempre lavorato, la famiglia non ha mai potuto supportarmi e ho fatto un po’ tutto da sola anche con grande disagio, nel mezzo però c’era tanta passione e poi ho avuto degli incroci importanti che mi hanno messa su questa strada.
Quali i passaggi fondamentali?
Oltre al mio periodo iniziale, l’insegnamento, le supplenze, la laurea in storia e critica del cinema, il ruolo di assistente alle cattedre a Verona e Padova, è stato formativo andare a Parigi con una minima borsa di studio tutta guadagnata. Per me era la meta agognata, ho trovato un posto da baby sitter dalla Direttrice di “Unifrance”, l’organismo di produzione del cinema francese, l’unica cosa che mi chiedeva era di parlare italiano e di seguirla al Festival di Cannes tutti gli anni come fosse un grande sacrificio. In quell’ambiente ho intrecciato legami internazionali che sono poi stati importantissimi. In Italia insegnavo nel basso veronese e poi la sera partivo per Bologna, stavo con i miei amici al DAMS, studiavo e collaboravo come tutti i giovani che hanno energia e passione. Sono andata a lavorare a Modena e ho potuto organizzare l’ufficio cinema che aveva tre sale da programmare e creare eventi. Quella è sempre stata la mia prerogativa, l’empatia con i personaggi, la capacità di entrare in contatto con quel mondo e questa è stata forse la cosa in più che mi ha permesso di arrivare anche a Ciak prima come inviata, la curiosità. Il fatto di essere stata bocciata al concorso universitario è stata forse una fortuna perché non era la mia strada, io sono giornalista, studiosa, ma non accademica, ho sempre letto in due lingue anche quando nessuno sapeva l’inglese, ho seguito, ho copiato, ho imparato la forma di giornalismo che avrei praticato a Ciak. E poi l’incontro con Gigi Vesigna, lo storico direttore di Sorrisi e Canzoni, per me importantissimo.
E come è arrivata a Roma?
Nel 2006 chiamata da Walter Veltroni e Goffredo Bettini che avevano voglia di creare un Festival del cinema a Roma. Io mi occupavo di premiere, di red carpet e mano a mano sono diventata direttore. Devo dire che quello è stato un grande evento dal punto di vista conoscitivo, un vero trampolino, una grande avventura piena di polemiche anche se non dimenticherò mai di essere riuscita a portare Nicole Kidman, che allora era all’apice della sua popolarità, su quel tappeto rosso nel giorno di apertura della festa. Un mio personale punto di arrivo, anche se non c’è niente che fai da sola, mai, e senza quella macchina organizzativa che era già imponente e forte non sarebbe stato possibile. A dispetto di quello che si vede io non sono affatto mondana, starei sempre a casa a guardare film, studiare, leggere, però mi piace connettere i punti, fare networking, unire le persone, scoprire talenti . Ciò che conta per me è costruire un’ identità intorno a un marchio, dare dei contenuti e forza a un nome, cambiare le cose. Penso di essere riuscita a farlo nei vari campi.
Nel suo caso si conciliano una grande passione e una grande professionalità.
Una passione fortissima che non saprei descrivere e che mi ha fatto superare delle montagne, le condizioni di nascita, il liceo che avrei voluto fare ma non mi fu permesso, i tanti lavori per mantenermi, insomma gli ostacoli classici. Ho avuto genitori straordinari che facevano tutto quello che potevano, ho superato ogni cosa con forza di volontà che ti viene data dalla passione, oggi non so come li supererei.
Come è riuscita a imparare dagli altri per poi creare qualcosa di significativo?
L’unico modo che hai perché la vita abbia un senso è passare il tempo a creare cose che lascino il segno non per il proprio ego, ma in realtà perché ne abbiamo bisogno. Ho fatto le scelte giuste, un pizzico di fortuna, ho sempre diffidato istintivamente dei caciaroni, di quelli che fanno un gran rumore, credo il lavoro si debba farlo silenziosamente, senza eroismi o furbizie. Mi piace creare squadra, io ne ho avute di magnifiche perché loro trovavano in me sostegno e io trovavo in loro la possibilità di esprimere al meglio quello che avevano in mente, non ho paura a delegare anche se a volte te ne puoi pentire. Ho cercato di uscire da situazioni difficili anche politiche, cercando la qualità, che è quello che alla fine resterà, perché la mia professione è un mestiere da cui ti possono mandare via o da cui scegliere di andartene ma deve rimanere la qualità. Vivo tra Milano e Roma, ma mi piace esportare un po’ di Trentino, amo questa zona quasi di confine ma senza nessun nazionalismo e sovranismo, è una terra diversa, con un suo carattere, silenziosa ma con senso civico e dell’etica.
Come si svolge il suo lavoro di Presidente dell’Accademia del Cinema?
È una missione complessa, l’Accademia è il punto di riferimento di tutte le associazioni di cinema, dai montatori ai fonici, dagli attori agli autori, dai registi agli sceneggiatori, tutte le categorie che troviamo nelle statuette sono rappresentate con le loro esigenze e richieste. Fin dal conferimento dell’incarico la mia missione era di svecchiamento totale dell’Accademia. Alla Festa di Roma avevo lavorato con Gian Luigi Rondi, il Presidente storico, volevo lasciare un forte pensiero su di lui perché è stato veramente un maestro, un amico, un confidente, ho imparato così tanto da lui e non è giusto che sia stato un po’ sottovalutato e dimenticato. Il David viveva un po’ di gloria esaurita, con il finanziamento ministeriale che serviva alla serata. Un premio di questo tipo deve essere un motore forte di promozione del cinema italiano, il lavoro dura tutto l’anno anche se vediamo l’evento su Raiuno nella location ideale, ovvero Cinecittà. Bisogna produrre formazione ed eventi tutto l’anno ed è quello che abbiamo fatto investendo in progetti come Becoming Maestre con Netflix, un programma di mentoring internazionale tenuto da maestri di grande fama e dedicato alle giovani professioniste che verranno poi assunte. Tante cose abbiamo fatto e tante ne abbiamo in programma. Ho inoltre sempre lavorato nel segno della parità di genere, uno dei miei pallini.
Come è cambiato il cinema italiano?
Ha sempre sofferto di un pregiudizio da parte del pubblico ma ha grandissimi autori e attori e oggi vi è un ritorno di interesse molto forte, dobbiamo mettere a regime tutti i meccanismi e lo stiamo facendo con “Cinema in festa”. Quella che soffre è la commedia italiana, troppe facce uguali e ripetitività e come dice Nanni Moretti dobbiamo assolutamente innovare, forse la commedia è più da piattaforma e social che da sala. Rispetto ad altri Paesi abbiamo una tassazione più favorevole, oggi produciamo tantissimo e però questo non può portare alla riduzione di qualità, anzi, dovrebbe favorire il contrario. Con l’uscita dalla pandemia si sta vedendo il ritorno al cinema, le piattaforme esisteranno, bisogna farci i conti, ma un po’ imploderanno. La gente ha cambiato abitudini, ma tornerà la voglia di uscire per tuffarsi nella magia di una storia pensata per il cinema, forte e che deve basarsi su temi altrettanto forti, dopo due anni dobbiamo costruire un rifugio di sogno e di bellezza con le storie altrui. Dobbiamo combattere per questo cinema, un paese che non ha voce nazionale è un paese povero e noi abbiamo un ottimo sistema di finanziamenti che permette molta creatività attraverso un sistema sano non a fondo perduto, UN CINEMA che non è di destra o di sinistra, dobbiamo però lavorare sulla qualità.
Il periodo di “Ciak”?
È stato un periodo molto importante, l’insegnamento di Vesigna, la guida in un giornalista direttore generale come Nini Briglia e una grande squadra che mi ha supportato anche attraverso le difficoltà. La mia creatura migliore, quella in cui più mi riconosco, grazie al lavoro di tante persone. È stato bello e gratificante parlare di cinema con competenza e insieme leggerezza, quello che volevo fare l’ho fatto in modo innovativo e pop. In questo penso “Ciak” sia stato un modello.
Come avvicinare ulteriormente il pubblico?
Occorre implementare la forma di comunicazione che è limitata. C’è tanta gente che fa e si preoccupa di questo tema, un po’ di gratitudine va a chi fa questo in anni difficili, credo che anche le sale a loro volta devono fare un enorme sforzo per diventare sale multiverso, essere accoglienti, ricreare ogni volta la sensazione dell’evento, l’uscita straordinaria speciale. Non c’è formula magica.
Quali i suoi gusti personali?
Sono appassionata di immagini, del passato amo Billy Wilder, Scorsese, Pietrangeli, sono nel mio olimpo e ne dimentico qualcuno: Antonioni, Visconti e prima di loro Rossellini e Fellini, queste le stelle di riferimento e nella modernità Nanni Moretti. Non mi stanco mai di vedere storie rapportate al cinema, le più belle e le più brutte, non mi è mai passata la voglia di vedere un film, li vedo dall’inizio alla fine sia per essere informata di quello che devo scrivere che per mantenere vive passione e conoscenze, anzi se potessi fare solo quello lo farei. Mi piace decifrare il linguaggio nascosto dei registi, degli autori, farmi raccontare, invadere dalle storie, di quanto abbiamo bisogno ci portino fuori da questo presente senza sogni e senza troppe prospettive.
Cos’è per lei il cinema?
È il modo di conoscere il mondo e la vita degli altri. La vita è meravigliosa soprattutto se qualcuno te la racconta eliminando fatiche e preoccupazioni, perché qualcuno riorganizza i tuoi sogni, le tue aspirazioni e le ritrovi su quello schermo.
La sua famiglia trentina?
Ho una sorella, Marisa, sposata Tamanini. Voglio molto bene a lei e al figlio, mio nipote Maurizio: è stata Direttore del Centro culturale Santa Chiara, e credo davvero che la cultura in città le debba moltissimo. Mio fratello Alcide, alpino e alpinista nell’anima, purtroppo se ne è andato qualche anno fa. Trento, che tra la altre cose ha assunto rilievo nazionale per il lavoro della Film Commission e del Festival, è nel mio cuore, anche se un po’ fuori mano per la vita che conduco.
Di cosa si occupa in questo periodo?
Mio marito Marco Giovannini vive tra Roma e Los Angeles dove ha lavorato come corrispondente, ora sta rientrando in Italia dopo 34 anni e ci stiamo occupando di sistemare la casa e il suo immenso archivio, è un momento speciale dal punto di vista personale e dell’impegno. Si lavora ancora più di prima. Dopo l’uscita da “Ciak”, sono responsabile entertainment per le testate Hearst, in primis Elle, curo per loro rubriche ed iniziative editoriali, in più sto avviando il mio secondo mandato ai David con molte innovazioni in programma.
Quanti riconoscimenti e incarichi ha avuto in Trentino?
Nessuno, di alcun tipo, neanche una chiamata se non, appunto, l’amicizia della Film Commission, sono anche un po’ stupita di questa intervista, pensavo che nella mia terra in pochissimi si fossero accorti del mio percorso. Chissà, forse manco da troppo tempo, ho lasciato la città giovanissima per studiare altrove, e di sicuro il mio viaggio professionale si è sviluppato in altri luoghi. Anche se ogni volta che un attore o un regista fanno sopralluoghi o girano in Trentino o presentano un film in città io ne vengo subito informata con affetto: loro sanno quanti ricordi mi porto dentro.