La vaccinazione si fa al drive through in modalità pit stop. Non sai cosa vuol dire? Cerca su internet, perché consultare il vocabolario non ti aiuterà. La slavina di anglicismi che si è abbattuta su di noi durante la pandemia (droplet cluster trial lockdown e via balbettando) mi spinge a richiamare l’attenzione dei lettori sul bene culturale più importante che abbiamo: la lingua italiana. Per carità, nessun sermone sulla decadenza dell’idioma nazionale. Idioma che, dicono gli esperti di linguistica, è molto più vitale di quanto comunemente si creda. Viviamo tuttavia in un’epoca di paradossi: mentre tra gli attori di Hollywood saper dire due parole in italiano è considerato il massimo dell’eleganza, in Italia non sei cool se non hai visto l’ultimo biopic sulla piattaforma on demand.
I prestiti da altre lingue sono sempre esistiti, ma bisogna riconoscere che l’incessante immissione di termini anglosassoni nel linguaggio corrente dei mezzi di comunicazione nostrani ha ormai raggiunto proporzioni abnormi.
Basta soffermarsi un attimo su alcune parole o espressioni tanto amate dai giornalisti, come location, meeting, task force e report (quest’ultima pronunciata rèport, con l’accento sbagliato e due erre belle vibranti), per constatare che esistono termini italiani assai più semplici e più chiari: ambientazione, incontro, unità operativa, rapporto. Nessun maestro elementare si sognerebbe di sostituirli, nella sua classe, con equivalenti presi a prestito da una lingua straniera: eppure in televisione e sui giornali vengono usati con frequenza ossessiva.
In Italia ogni fenomeno apparentemente nuovo si porta appresso una definizione in inglese. Perciò, da qualche tempo, chi trova lavoro nel delivery è un rider: suona più figo, ma rimane un mestiere faticoso, esattamente come quello dei fattorini che fanno consegne a domicilio. Senza contare che rider in inglese vuol dire cavaliere, fantino, ciclista o al massimo motociclista. Ricordate il film Easy Rider? Non parlava di lavoratori sfruttati da Just Eat. E come spiegare l’improvvisa scomparsa degli allenatori, rimpiazzati in tutta la penisola dai coach? Ti insegnano a fare running, che è tutta un’altra cosa rispetto ad “andare a correre”.
Usando l’itanglese ci si illude di essere al passo coi tempi. Tuttavia, analizzando altre parole, sorge il dubbio che l’espandersi del fenomeno nasconda scopi fraudolenti. In molti casi, infatti, chi usa il termine inglese lo fa proprio per non farsi capire, o per farsi intendere solo da una ristretta cerchia di iniziati, oppure per ostentare uno status sociale superiore. Lo conferma il gergo della finanza, che è impestato di board, di ceo e di competitor: termini usati anche in relazione a società con sede legale a Cinisello Balsamo. Non si scherza nemmeno nel mondo dell’arte contemporanea, dove art director, courtesy, site specific sono diventate formule magiche usate per impressionare i non addetti ai lavori. Del resto, il vizio si è rapidamente diffuso anche nelle Università, dove si inviano call for papers e si proiettano slide anche ai workshop di filologia romanza, mentre al coffee break possono partecipare solo i membri del panel.
Meno male che per le celebrazioni del settimo centenario dantesco lo scrittore Paolo Di Stefano ha coniato con largo anticipo il termine Dantedì: perché altrimenti qualcuno, ai piani alti del Ministero della Cultura, avrebbe senz’altro lanciato il Dante Day. Ma non illudiamoci: nel frattempo il Comune di Campobasso ha promosso un contest dedicato al Sommo Poeta, dove i concorrenti si sfideranno sul tema della Divina Commedia a colpi di like. Insomma c’è del metodo in questa follia. Ce lo insegna il linguaggio della pubblicità: infatti, se il cibo per cani e gatti lo vendi come petfood (come odiosi spot sembrano voler imporre) lo potrai far pagare più caro, anche se nel barattolo c’è la stessa porcheria di prima. E se il negozio sotto casa lo ribattezzi store, vedrai che a qualcuno sembrerà più grande e più specializzato.
Più grave è l’abuso dell’inglese nel linguaggio della Pubblica Amministrazione, dove espressioni come front office, call center, smart working e stakeholder sono ormai inserite nei documenti ufficiali. Ciò è inaccettabile perché lo Stato, in tutte le sue articolazioni, dovrebbe rivolgersi alla più ampia platea possibile di cittadini, usando un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti. Se si tiene conto che i rudimenti della lingua inglese sono noti a meno del 50% della popolazione italiana (dati Istat 2015), l’uso di parole inglesi negli atti pubblici appare chiaramente un comportamento antidemocratico. Perciò si dovrebbe dire e scrivere: sportello, centralino, lavoro agile, portatore di interessi. È tanto difficile?
Infine veniamo alla politica, dove l’uso di formule inglesi è distribuito equamente tra tutti i partiti: dal family day alla spending review, dal jobs act ai navigators. Tutte espressioni sulle quali la satira ha giustamente infierito, denunciando come nella vita pubblica italiana, da molti anni ormai, manchi soprattutto una cosa: il senso del ridicolo.
Una vera e propria “Anglodemia”
Anche la nostra meravigliosa lingua è oramai ricca di termini inglesi di cui pare non si possa più fare a meno, tanto da essere entrati a far parte dei dizionari ufficiali e, volenti o nolenti, dobbiamo memorizzarli. Numerose parole inglesi utilizzate in italiano derivano dal mondo del “marketing” e del “web” e non hanno una parola italiana complementare, ma altrettante si sono diffuse in maniera capillare soppiantando completamente quelle italiane che, al contrario, potrebbero essere usate con lo stesso valore.
Alcuni esempi? Ecco qui 60 anglicismi di ampia diffusione in italiano:
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