Quel che rimane del suolo

Il consumo di suolo corre, in Italia, nelle Alpi e anche in Trentino-Alto Adige. Con una media italiana di 19 ettari al giorno sciupati, il valore più alto negli ultimi dieci anni, e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, il consumo di suolo torna a crescere e nel 2021 sfiora i 70 kmq di nuove coperture artificiali in un solo anno, in tutta Italia. Facciamo peggio della media europee, infatti la copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,13%, rispetto alla media UE del 4,2%.

Il cemento ricopre ormai 21.500 kmq di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato.

L’ultimo rapporto dell’Ispra, pubblicato a luglio di quest’anno, mostra i dati di uno scempio implacabile. In Trentino-Alto Adige, dal 2006 al 2012 (ultimo dato certo di comparazione) ci siamo mangiati altri 587,26 ettari. Anche nel 2021 in regione si sono consumati poco meno di altri 100 ettari di suolo: nessun reale arresto, nonostante da anni qualche politico vagheggi di fermare la dinamica. Essere “meno peggio” di altre regioni, ben più popolose e produttive, non può essere un alibi.

Si perde suolo principalmente per l’espansione urbana e per le sue trasformazioni collaterali ma anche per il turismo, anche nelle pregiate zone montane.

Tutto questo rende il suolo impermeabile, aumenta gli allagamenti e le ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità, dei servizi ecosistemici, riduce lo stoccaggio del carbonio, con un danno economico stimato in quasi 8 miliardi di Euro l’anno.

La legge nazionale per arrestare questo consumo folle non è stata approvata nella precedente legislatura e le norme regionali e provinciali non esistono o non incidono.

“Ci serve una legge-quadro specifica al più presto” chiosa Vanda Bonardo, presidente di Cipra Italia, “dopo di che sarebbe già gran cosa se si rispettassero le norme vigenti e le direttive europee. Ad esempio per la Rete Natura 2000 arrivare ad una restaurazione dei siti danneggiati o compromessi, sarebbe un passo importantissimo. Ma soprattutto serve rispettare le norme vigenti. Negli ultimi anni si assiste ad una ragguardevole proliferazione di proposte di progetti, prevalentemente infrastrutturali o relativi ad attività economiche, all’interno dei Siti Natura 2000 italiani, tanto per dire la gravità della situazione. Nonostante la procedura di EU-Pilot attualmente in corso tra lo Stato italiano e la Commissione europea sull’applicazione della direttiva “Habitat”, ampliamenti di impianti sciistici, cave, vie di comunicazione, urbanizzazioni, turismo elitrasportato, elettrodotti, centraline idroelettriche e altri impianti energetici, solo alcuni dei numerosi progetti in fieri in evidente contrasto con gli obbiettivi di conservazione delle direttive “Habitat” e “Uccelli”.

Come possiamo fermare questa follia, allora?

Manuela Baldracchi, presidente Italia Nostra Trentino, ragiona “Gli strumenti urbanistici che abbiamo sarebbero sufficienti, se fossero mantenute le finalità che vengono definite al momento della loro stesura. Il grosso problema sta nel fatto che la programmazione iniziale viene minata dalle continue varianti che i vari amministratori propongono a seguito delle richieste dei privati che tendono ancora a sfruttare al massimo il territorio. Casi eclatanti sono i nuovi insediamenti industriali e artigianali, resi spesso possibili anche in aree che erano vincolate a verde (e che potrebbero insediarsi nelle ampie aree artigianali dismesse).”

Il direttore scientifico della LIPU nazionale, Claudio Celada, ricorda l’importanza della connettività ecologica, per l’avifauna e per tutta la natura. “Consumare suolo, costruire troppo significa infatti disconnettere, frammentare e impoverire gli ecosistemi, già sottoposti a stress pesante” dice: “Non di rado, ad esempio per grossi eventi come le Olimpiadi ma non solo, sono rispettate solo in parte le regole deputate a tutelare Parchi, Biotopi, Zone protette dalla Rete Natura 2000, che restano preziosi tasselli, spesso efficaci nel proteggere l’ambiente proprio anche da questo danno”.

La presidente di Italia Nostra, Baldracchi, rincara “In aree fino a poco tempo fa caratterizzate da ampi campi e prati, ambienti pregiati, le varianti al PRG, in quasi tutte le valli del Trentino, rendono possibili nuovi scempi: enormi volumi di cemento, masse prepotenti, senza proporzione e senza relazione con il contesto.”

La zonizzazione urbanistica dovrebbe salvaguardare gli ambiti pregiati del paesaggio, “ma è facile e sempre più frequente che la logica della salvaguardia venga svenduta alla logica del profitto”, commenta amaramente Baldracchi.

Le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito la fornitura complessiva di 4 milioni e 150mila quintali di prodotti agricoli e l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei nostri territori. Sono dati che possiamo leggere nel rapporto dell’Ispra. E che rendono bene l’idea del danno enorme che stiamo facendo.

Ogni volta che le associazioni ambientaliste o i comitati locali si oppongono, spesso con ottime proposte alternative e analisi scientificamente fondate, a nuovi consumi di suolo, a costruzioni in quota, ad allargamenti vari, bacini artificiali, piste da sci, eccetera, in Trentino, come nel resto delle Alpi, i proponenti parlano ancora di “sviluppo” come un disco rotto e stonatissimo.

Ecco allora un altro passo essenziale del Rapporto Ispra “Nello stesso periodo (2006-2012, ndR), la perdita della capacità di stoccaggio del carbonio di queste aree (oltre tre milioni di tonnellate) equivale, in termini di emissione di CO2 , a quanto emetterebbero più di un milione di autovetture con una percorrenza media di 11.200 km l’anno tra il 2012 e il 2020: un totale di oltre 90 miliardi di chilometri percorsi, più di 2 milioni di volte il giro della terra”.

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Pubblicato da Maddalena Di Tolla Deflorian

Nata a Bolzano, vive sull’altopiano della Vigolana (Trento). Ha una formazione in ingegneria, geografia, scienze naturali. È educatrice, interprete ambientale, giornalista. Collabora con la RAI di Trento e varie testate. La sua attività si focalizza in particolare su biodiversità, etica fra specie, ricerca scientifica. Ha seguito con varie associazioni ambientaliste alcune significative vertenze ambientali. E’ stata presidente di Legambiente Trento, delegata della Lipu Trento, oggi è referente di Acl Trento, occupandosi di randagismo e canili. Ha contribuito a fondare e gestire il canile, il gattile, il Centro Recupero Avifauna di Trento. Ha preso parte al salvataggio dei 2600 cani di Green Hill. Ha maturato una profonda esperienza giornalistica e di advocacy nelle vicende legate a gestione del territorio alpino e conservazione della biodiversità. Con il fotografo Daniele Lita ha firmato il libro “Fango”, sul disastro di Campolongo (Tn), per Montura Editing. Ha curato la ricerca giornalistica per la mostra “Chernobyl, vent’anni dopo” (Trento, 2006).