
“Slice of Life”, “fetta di vita”. Così, nel teatro, in letteratura, e anche nel cinema, viene in gergo chiamata la rappresentazione di uno spaccato, più o meno breve, ma sempre indiscutibilmente realistico, sempre indiscutibilmente legato alla quotidianità e alla normalità, della vita di uno o più personaggi. È una “fetta di vita” anche Dieci Capodanni (Los años nuevos), la serie tv da alcuni mesi parte del catalogo RaiPlay (e presentata anche al Festival di Venezia, seppur un po’ in sordina). Una di quelle serie che non hanno fatto scalpore con l’uscita, ma che, lentamente, un mese alla volta, stanno conquistando il favore di un pubblico vastissimo. Perché? Perché è semplicemente ben fatta.
A firmarla, uno dei registi spagnoli che, negli ultimi anni, si sta facendo sempre più riconoscere, Rodrigo Sorogoyen (quello di As bestas, per capirci. Un film da recuperare assolutamente si vi manca).
Struttura lineare
Niente scalpore, si diceva. La struttura della serie è semplice, lineare, e mette da parte tutti gli espedienti narrativi più acchiappa-pubblico (i cliffhanger, i flashback…) per seguire invece una formula sempre uguale: in ognuno dei dieci episodi – da circa 50 minuti l’uno – è Capodanno. Ogni Capodanno i protagonisti sono Oscar e Ana (Francesco Carril e Iria del Río, straordinari nelle loro interpretazioni che, da sole, reggono il tutto); ogni Capodanno ci troviamo “catapultati” in avanti di un anno nelle loro vite, senza aver visto e vedere nulla di quanto accaduto, ma ricostruendo il tutto – vicinanze, distanze, nascite, morti… – solo dalle parole dei personaggi, dai loro stati emotivi, dalle loro presenze o assenze.
Delle vite
Uno spunto semplice, essenziale, che già avevamo trovato altrove – una su tutte One Day di Molly Manners, Luke Snellin, John Hardwick e Kate Hewitt, presente sul catalogo Netflix, in cui era sempre lo stesso giorno – ma che apre uno spaccato sulla vita, quella vera: Oscar e Ana si innamorano, parlano (con conversazioni sul nulla e sul tutto, che sembrano prese dalla realtà banale di ognuno di noi), ridono, festeggiano, bevono, ballano, litigano, si lasciano, soffrono, crescono… Sorogoyen ci mostra come il nulla possa essere interessante, e farci sentire riconosciuti, farci sentire parte di una vicenda. E nel mostrarci tutto il “normale”, ci cela tutto l’eccezionale: non vediamo mai le grandi tensioni, i grandi sconvolgimenti, perché ciò che è prezioso, è il quotidiano. Un quotidiano che si rispecchia in ogni dettaglio, perfino nella scelta degli attori che interpretano le parti, non due divini dal capello sempre in posa dunque, ma due persone qualsiasi. Un quotidiano che torna – tra le cose che più colpiscono – in una vacanza che non ha nulla di incredibile e di condivisibile sui social, e in scene di sesso non idilliache, ma naturali e imperfette.
I Millennials
In un arco narrativo che va dal 2016 al 2024, attraversando la pandemia da Covid19, il regista spagnolo ci mostra dunque l’intimità di due esseri umani, che finiscono inesorabilmente per essere ciascuno di noi, ma che – forse – sono più di facile immedesimazione per i Millennials (come del resto chi qui scrive). Dal primo episodio, che si apre sulla storia di come si sono conosciuti, Oscar, nato il 31 dicembre, e Ana, nata il primo gennaio, diventano emblema – così come erano stati del resto Connell e Marianne in Normal People di Lenny Abrahamson e Hettie Macdonald (recuperabile sempre su RaiPlay) – di una generazione alle prese con l’inadeguatezza del diventare adulti, con le ansie, le paure e le difficoltà della vita vera. Così, se la serie si apre su quella voglia di andarsene e stravolgere la propria esistenza che non troverà mai compimento, prosegue a mano a mano lungo i binari dei primi amici con dei figli, delle amiche che fanno carriera, della sensazione d’essere sempre un passo indentro rispetto ai propri coetanei, e anche, ancora – mostrandoci il passaggio dai 30 ai 40 anni -, dell’ironico “declino” dalle serate in discoteca, al latte d’avena e ai capelli grigi.
Maturano i personaggi, cambiano le loro necessità, e intanto muoiono i familiari, si affrontano le difficoltà della vita adulta – che, per quanto un po’ in ritardo rispetto ad altre generazioni, comunque a un certo punto arriva -. Ci sono Capodanni dove tutto va storto, e altri in cui tutto quello che si cerca è una cena (bellissimo episodio, il numero 4) con la famiglia, in un confronto generazionale costante, che non fa sconti e che svela, soprattutto, le somiglianze e le vicinanze tra genitori e figli.
The End
Ma la vita, a volte, le storie le conduce a un epilogo, e non sempre sceglie il lieto fine (viene in mente immediatamente lo straordinario Past Lives di Celine Song). Punta di diamante è così l’ultimo episodio, il numero 10, lunghissimo piano sequenza che nulla – assolutamente nulla – ha da invidiare a serie molto più chiacchierate come Adolescence di Philip Barantini (Netflix) e che chiude perfettamente un cerchio: dall’incapacità di Ana di concretizzare i sogni, giungiamo a quella di Oscar di cambiare, col cambiare della vita stessa.
Dieci brindisi a ciò che siamo
Che bellezza ritrovarsi raccontati così. “Dieci Capodanni” ci consola, ci abbraccia, ci dice che le nostre vite – imperfette, storte, a volte stanche – sono in realtà piene, vere, e persino belle. Spesso siamo troppo duri con noi stessi, cerchiamo il dramma o vediamo del marcio anche dove non c’è. E invece no: anche la nostra erba è verde, a volte più di quella del vicino. In casi come questo, una serie tv fa compagnia come uno o due amici sinceri: rincuora, ci fa sentire visti, amati, e ci aiuta a capire quanto conti davvero la nostra vita, anche se non siamo delle rockstar o dei divi di Hollywood. Il geniale Rodrigo Sorogoyen ci regala dieci piccoli Capodanni per dire che la normalità può essere straordinaria. E che vivere è già abbastanza.
E allora brindiamo anche noi, per ciò che siamo. Con quello che c’è, che forse va bene anche così. (PL)