Ripensare lo spazio pubblico

Ho un amico che è appena tornato da una vacanza in una capitale nordeuropea. “Qual è la cosa più bella che hai visto?”, gli ho chiesto. Lui ci ha pensato un po’ e poi ha risposto: “Una biblioteca”

Beh, ho pensato, capisco che possa essere molto bella, ma andare fin lassù per vedere una biblioteca non mi sembra proprio il massimo. “Aspetta che ti spiego. – ha detto – Innanzitutto ti sto parlando di una città che è sì attraente, ma dove spesso fa freddo e piove, costringendo le persone a stare al coperto. Questa biblioteca in effetti non è solo una biblioteca: è uno spazio pubblico accogliente, moderno, luminoso, un luogo che fa perno sui libri e le altre cose che oggi si trovano nelle biblioteche, riviste, video e via dicendo. Attorno a questo nucleo, a questo ‘collante’, diciamo, i libri, si sono sviluppate tutta una serie di aree complementari. Ad esempio, un intero piano era dedicato ai genitori e ai loro bambini, per giocare, e permettere alle famiglie di incontrarsi quando fa brutto tempo. Poi c’erano un cinema, un ristorante, un laboratorio teatrale, degli ambienti esterni…”. 

Una cosa a metà fra un centro commerciale e un centro sociale, ho pensato, e mettiamoci pure anche la bocciofila (i nostri nonni mica erano stupidi). Solo che i centri commerciali mettono l’accento sulla merce, sul comprare, i centri sociali, almeno in Italia, fanno pensare subito a giovani “antagonisti” (posto che anche loro hanno diritto ai loro spazi, ci mancherebbe) e le bocciofile sono sparite. 

Eppure il bisogno di socializzazione c’è, è palpabile, ed è trasversale. Perché nove volte su dieci se si inaugura uno spazio in una città deve essere dedicato al commercio? Intendiamoci: fare shopping è bello, oltre che (a volte) necessario. Ma perché non immaginare dei luoghi sostenuti dalla collettività – quindi impiegando risorse pubbliche o pubblico-private – che abbiano come unico fine ospitare i cittadini e offrire loro l’opportunità di fare cose non legate all’acquisto, e neanche necessariamente al guardare uno spettacolo? Cose come leggere un libro, giocare, parlare. O gestire gli spazi stessi, anziché lasciarlo fare alle multinazionali dell’abbigliamento e del food.  

Certo, alcuni luoghi così già esistono: esistono appunto biblioteche, musei e parchi, a volte free, a volte accessibili con un ticket. Ma ci sarebbe la possibilità di fare di più. Progettare luoghi ampi, comodi e funzionali, magari anche esteticamente interessanti, che prendano il posto dei tanti edifici fatiscenti delle nostre città, che altrimenti diverranno preda, prima o poi, della speculazione edilizia, spazi ispirati ai valori della share economy, l’economia basata sullo scambio, la condivisione e il libero accesso ai beni (le biblioteche, in questo, sono state storicamente un grande apripista). Spazi dove a contare, prima che le architetture opulente delle archistar, siano la governance, ovvero la gestione, e le funzioni ospitate, ovvero i bisogni che sono chiamati a soddisfare.

Immagino due obiezioni: la sostenibilità economica e l’ordine pubblico. La riposta mi pare chiami in causa in entrambe i casi la collettività. La collettività può scegliere a cosa destinare le risorse, specie se viene interpellata (un tempo non lontano si parlava di democrazia partecipata, oggi non è più di moda). Ed è sempre la collettività che, occupando pacificamente gli spazi, rendendoli vivi, gestendoli in prima persona, potrebbe tenere lontana la devianza, o magari cambiarla proprio alla radice.

Utopie? Forse. Ma se non le coltiviamo, ogni tanto, cosa lo abitiamo a fare questo XXI secolo?

Il vocabolo

[gen-tri-fi-ca-zion-ne] s. f.  

Il processo di riqualificazione urbana spesso comporta l’afflusso di nuovi residenti più benestanti in quartieri precedentemente degradati. Questo fenomeno migliora infrastrutture e servizi, ma provoca anche un aumento dei prezzi degli immobili. Di conseguenza, gli abitanti storici, generalmente a basso reddito, sono spesso costretti a trasferirsi. Questo cambiamento socioeconomico può portare a una perdita dell’identità culturale del quartiere, rendendo il tema particolarmente controverso e dibattuto.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.