Ritorno al vero gusto delle cose

Era arrivato la sera, un volo di una manciata di ore e un altro paio in auto per raggiungere casa dei suoi genitori. Tornato a dormire, di nuovo, in quella stanza che, nonostante fosse il doppio dell’appartamento in cui viveva all’estero, manteneva la natura della cameretta, gli era piombata addosso la stanchezza di mesi di alienante smart working. Aveva poggiato gli occhiali sul comodino, tra una macchinina e un supereroe e, ben presto, era crollato in un sonno pesante e pacifico. 

La mattina, ancora prima di aprire gli occhi, aveva riconosciuto il tintinnare di mestoli e padelle, il rumore strascicato delle ciabatte di sua madre e l’odore che la vecchia moka rilasciava fino al piano superiore. Sapeva già tutto della scena che lo avrebbe atteso al piano di sotto, in cucina, qualcosa di rassicurante nonostante l’ordinarietà immutabile. 

Suo padre sfogliava pigramente il giornale davanti ad una tazza di caffelatte, mentre la madre era intenta a cucinare come si usa per le grandi occasioni. Inanellava gesti con naturalezza, le mani correvano veloci e sicure tra coltelli, barattoli e padelle, come fossero guidate da una memoria antica, rimasta per una qualche oscura ragione sepolta in un anfratto della mente. Andava ad assomigliare, incurvandosi ogni anno di più, a sua nonna, forse per questo gli prese una commovente nostalgia dei tempi in cui quella casa ospitava ancora tutti: le sue sorelle e i nonni. Fin da bambino era capace di cogliere istintivamente i vuoti, sapeva come fosse proprio l’assenza di luce o di un oggetto a rivelarne la mancanza. 

Forse, anche per questo motivo, aveva finito per imparare da sua nonna e sua madre a non buttare via niente, nonostante la vita da emigrato lo avesse costretto a disperdere troppe cose che non poteva portare con sé. 

Ed ora si trovava seduto a quella vecchia tavola, commosso davanti ai gesti di quella donna che si dava un gran daffare tra conserve e barattoli. 

Conservare, lo sapeva fin troppo bene, lui che si occupava di etimologia, significa mettere da parte, non buttare, custodire, non dimenticare. Tenere buono quello che è buono affinché non si perda. 

Eppure, come sua nonna, lei riusciva in un di più, una piccola magia per lui: trasformava una stagione in modo che anche quando sarebbe cambiato il vento, potesse ritrovarla e averla. Un’estate in pieno inverno a più di mille chilometri di distanza. In certi momenti, i profumi e i sapori, avrebbero trasformato la vita in dispensa di mille ricordi. 

Come la frase con cui sua madre, mentre gli allungava una borsa di manicaretti, lo aveva amorevolmente rimproverato per anni, durante l’università e nei primi anni di lavoro, quando i suoi pasti erano sregolati e ben poco sani: “Non sottovalutare il cibo, perché non è solo ciò che tiene in vita il corpo, ma è soprattutto qualcosa che mantiene viva la mente”.

Lo aveva studiato, poi insegnato che “sapore” e “sapere” hanno la medesima radice, non solo fonetica, che il latino sàpere “aver sapore”, “odorare”, quindi in senso figurato “essere saggio”, “aver senno”. Aveva aperto numerose conferenze illustrando come dalla sfera gustativa il significato è passato al naso, e dal naso infine alla testa. 

Gli aneddoti familiari lo avevano aiutato in questo: immagini come quella di sua madre avevano sempre il potere di spiegare come “sapere” significa intuire il gusto delle cose, ma anche insaporirle, renderle preziose.

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Pubblicato da Denise Fasanelli

Mamma insonne e sognatrice ad occhi aperti. Amo la carta, la fotografia e gli animali. Ho sempre bisogno di caffè. Non ho bisogno di un parrucchiere, d’altronde una cosa bella non è mai perfetta. Ho lavorato nel campo editoriale, della comunicazione e mi sono occupata di marketing per alcune aziende. Ho pubblicato un libro insieme all’ex ispettore Pippo Giordano: “La mia voce contro la mafia”(Coppola ed. 2013). Per lo stesso editore, ho partecipato, in memoria dei giudici Falcone e Borsellino, al libro “Vent’anni” (2012) con un racconto a due mani insieme all’ex giudice Carlo Palermo.