La notizia è stata pubblicata da “La Prealpina”, storico quotidiano della provincia di Varese, e rilanciata da La Repubblica il 5 agosto scorso. È stata presentata così: “Il prete frequenta una parrocchiana diventata da poco vedova e va a trovarla assiduamente nel suo appartamento. Una vicina di casa, avvocata, scandalizzata da quella che lei aveva inteso essere una vera e propria relazione, segnala il caso con una lettera indirizzata alla Curia e addirittura al Papa insinuando il dubbio che la figlia di lei fosse nata da una relazione clandestina con il religioso. Il sacerdote, che spiega di aver offerto alla sua parrocchiana esclusivamente “conforto spirituale”, replica esibendo un certificato del dna per difendersi dall’accusa di essere il padre della ragazza, con una querela per diffamazione (la prossima udienza è stata fissata a gennaio 2022).” Sembra una notiziola da pruriginosi curiosoni di provincia, ma non lo è.
La questione c’è. Non sta ovviamente nei rapporti tra il prete e la signora vedova, che non interessano affatto la nazione e pare nemmeno la Curia. Sta nel fatto che il sacerdote si sia sentito diffamato dall’ipotesi di avere una relazione stabile con una donna vedova e di essere padre di una loro figlia. Nessun altro si sarebbe sentito offeso o screditato dall’attribuzione, fondata o meno, di un comportamento tanto normale.
L’avrebbe eventualmente confermato o smentito, se di suo interesse. E ciò per il semplice fatto che nessuno avrebbe potuto esporla come un’accusa. E invece, nella fattispecie, la vicenda assume proprio questo contenuto, tanto che ne potranno conseguire due processi, uno canonico a carico dell’accusato, e uno secolare a carico dell’accusante.
Giuridicamente, la questione è irrilevante; saranno assolti tutti e due. Anzi, la Chiesa non è nemmeno tenuta a istruire il processo, né il giudice secolare a concludere il suo. Ambedue gli ordinamenti, presumibilmente, cercheranno di evitare lo scontro, e lo faranno evitando di motivare l’assoluzione con i propri principi basilari.
Il tribunale ecclesiastico, assolvendo per insufficienza di prove e di pubblico scandalo, eviterà di dire che per un prete, sì, se provata, l’accusa di avere una relazione con una donna e addirittura un figlio sarebbe grave. E il tribunale italiano eviterà di dire che non c’è proprio nulla di male nei fatti che vengono attribuiti, essendo il male semmai negli occhi di chi guarda.
Quindi, tarallucci e vino? Eh no. Per capirla bene, proviamo a girarla. Immaginiamo che un avvocato uomo denunci alla Curia un prete donna perché avrebbe una relazione stabile con un uomo vedovo, e abbia avuto con lui un figlio. Ma non è possibile, direte voi. Ecco, appunto. Qui sta la questione. Non è possibile. Non per la poca sensibilità dell’avvocato uomo che denuncia il prete donna.
È che, come sappiamo, i preti donna non esistono: la Chiesa opera di fatto una discriminazione radicale fondata sul genere all’ordinamento sacro.
Si dice nei trattati di diritto canonico: “Indubbiamente, il principio che riserva agli uomini la possibilità di ricevere l’ordine sacro costituisce la base di una diversità di trattamento tra l’uomo e la donna, ma, sotto il profilo giuridico, si potrebbe parlare di discriminazione, per violazione del principio di uguaglianza, solo se tale regola non avesse giustificazione ragionevole in motivazioni oggettive (…)” (Ilaria Zuanazzi, La donna soggetto e protagonista nel diritto della Chiesa). Ve le risparmio: le donne non possono essere ordinate sacerdote… perché sono donne. Forse perché, come dice il proverbio, “ale done no se ghe comanda”?