Silvia Conotter: “Il male? Mi ha resa molto più forte di prima”

Ci sono notizie che sono treni in faccia. O forse nella schiena, perché inaspettate. Ci sono giornate così buie che non arrabbiarsi con un destino che appare ingiusto risulta impossibile. Ci sono momenti in cui avere paura sembra l’unica cosa che resta da fare. Ci sono periodi in cui arrendersi allo sconforto appare inevitabile.
Oppure no.
Silvia Conotter, giornalista, esperta in marketing del territorio e fondatrice dei progetti editoriali di successo Il Trentino dei Bambini e Il Trentino delle Meraviglie, ha scelto proprio quell’oppure no, quando una ginecologa – nel mezzo di un anno segnato dall’emergenza sanitaria per Covid-19, ma per Silvia anche da una grande trasformazione personale – le comunica la diagnosi emersa da alcuni accertamenti: cancro all’utero.
Con un caffè, ha raccontato il viaggio del suo 2020.
Le foto di questo articolo sono di Elena Tonolli.

Silvia, il 2020 è stato un anno decisamente faticoso, per il mondo intero e anche per te. Ma il tuo sorriso suggerisce anche molto altro…
Già dalla fine del 2019 respiravo la necessità di avere più tempo libero, di godermi un po’ più la vita dopo tanti anni dedicati quasi esclusivamente al mio lavoro. Così a dicembre mi sono concessa una vacanza invernale, iniziando il 2020 in un’isola di vento e vulcani, un luogo dall’energia potente che in dieci giorni mi ha regalato una grande ricarica. La cosa interessante è che durante quel viaggio ho pensato che è importante avere il serbatoio pieno, la vita non si sa mai cosa può farti trovare dietro l’angolo. Genericamente tendiamo a fare invece il contrario: siamo sempre svuotati. Pur non avendo come obiettivo il benessere economico, mi ritrovavo spesso senza tempo e oggi invece so che il vero lusso è poterne disporre liberamente.
Parli di una nuova consapevolezza. Ricordi un momento in particolare che te l’ha fatta riconoscere?
Giugno, il mio compleanno: nel 2020 ho compiuto 40 anni, un punto di svolta per me. Se mi proponessero di tornare indietro ai miei 20 anni non accetterei mai, con l’età ho acquisito la consapevo-lezza di poter affrontare le cose una per una e di potercela fare. Per festeggiare ho organizzato un pranzo in montagna, il mio ambiente preferito, con parenti e amici. Ho aperto l’invito ai miei follower su Instagram del Trentino delle Meraviglie: mi sembrava anche un bel modo per celebrare la nostra bella community. Quel giorno diluviava, però mi sono detta: facciamola lo stesso. Dopo aver raggiunto il rifugio, a 2200 metri di altitudine, il cielo si è aperto: è tornato il sole e con lui un enorme arcobaleno doppio. Mi è sembrato un buon insegnamento: non arrendersi, anche se le condizioni non sono le migliori. Ho una foto bellissima di me quel giorno, proprio sotto l’arcobaleno.
Una leggenda dice che all’inizio dell’arcobaleno c’è uno scrigno con i tesori: ne hai trovato uno anche tu?
È successo proprio così, la vita è generosa: quel giorno ho incontrato un amore grande, un amore maturo, l’amore che sognavo da sempre. Spesso da giovani si rimane intrappolati in meccanismi di potere, maturando si capisce che l’amore non è quello che toglie il fiato, ma al contrario quello che riempie i polmoni. In quel momento ero felice della mia vita e sono convinta che la vita sia bella e preziosa sempre. Per me condivisa è semplicemente diventata migliore.
E poi cosa è successo?
Già… In questo idillio mai provato prima, un mese dopo ricevo una brutta notizia dal risultato del pap test. Trascorro l’estate a fare esami e valutazioni mediche. Un primo intervento e poi la parola che una persona non vorrebbe sentirsi dire mai, che anche se non ne conosci il significato capisci che sarà uno spartiacque: “adenocarcinoma”. Un tumore tanto esteso da implicare l’asportazione completa dell’utero e un percorso medico che si è concluso solo pochi giorni fa. All’inizio ho provato paura e sconcerto, come si può immaginare. Passato il primo momento e capito che avrei potuto guarire, ho iniziato a pensare alle implicazioni.

Per esempio?
La prima cosa a cui ho pensato è stata ovviamente la maternità. Non è stato semplice negli anni gestire un lavoro fortemente legato alle famiglie, rispondendo spesso a domande indiscrete sul mio non essere mamma. Con il tempo ho imparato a fare pace con l’idea che la maternità “tradizionalmente intesa” forse non era destinata a me, ma una notizia come quella che mi hanno dato i medici rende il tutto molto più definitivo.
L’aggressività della malattia era importante, ma il fatto che fosse in un posto circoscritto ha reso le cure più semplici ed efficaci. Infine la sensazione positiva del sostegno intorno a me è stato grande: il calore della mia famiglia, dei miei amici, dei miei collaboratori, di tutto ciò che ho seminato nella vita ha risvegliato una voce dentro che mi diceva che ce l’avrei fatta.
C’è un tempo di adattamento all’avere a che fare con la malattia? Oltre alla dimensione medica, c’è una dimensione psicologica da considerare?
Certamente. Soprattutto all’inizio, credo siano le parole a fare paura: reparto di oncologia, adenocarcinoma, radioterapia. Fa tutto molta impressione. Ma poi per me è stata una questione di prospettiva. Ho provato a guardare quello che c’era invece che quello che mancava. Pur trovandomi in una situazione difficile, c’era un grande aspetto positivo: la mia malattia concedeva guarigione. E cosa c’è di più importante, se non la vita stessa? Oggi credo di essere fortunata, ma anche di meritare ciò che ho e che ho costruito. Ho l’amore che merito, la famiglia che merito, gli amici che merito. Tantissime persone che mi vogliono bene anche attraverso i social. La vita prende, a volte, ma restituisce tanto. Ho trovato questa libertà anche allontanandomi dal giudizio degli altri: rilasciare quest’intervista, ad esempio, non è semplice, ma una malattia non è una colpa e sentivo di avere delle cose importanti da dire. Senza contare che la mia dimensione pubblica alimenta inevitabilmente voci e supposizioni.
La situazione attuale come ha segnato il tuo percorso in ospedale?
Certamente il pensiero del virus, degli ospedali pieni mentre devi affrontare un percorso come il mio non è di conforto, ma devo dire di essere stata colpita dall’umanità che ho respirato nei reparti tra medici, infermieri, operatori sociosanitari. Li porto tutti nel mio cuore. Paradossalmente ci sono anche aspetti positivi: reparti meno affollati di visitatori, appuntamenti fissi ed estrema puntualità hanno reso la mia esperienza più semplice da affrontare dal punto di vista logistico.

La narrazione della solitudine delle persone ricoverate è una delle più dolorose che abbiamo ascoltato nel 2020. Spesso però è stata solo legata ai pazienti ricoverati per Covid, di-menticando che invece riguarda anche persone ricoverate in altri reparti. È questa la difficoltà più grande?
La parte più dura è stata non poter ricevere visite. In tanti all’ospedale mi conoscevano attraverso il mio lavoro sui social e in tv. Tutti sono stati molto premurosi, ma non è come avere i propri affetti vicino. Il momento più difficile è stato il ritorno dalla sala operatoria: ero sola, nessuna visita era concessa. Poco dopo è arrivato il primario per spiegarmi come fosse andato l’intervento, più lungo del previsto. Nonostante non abbia aggiunto molto rispetto a quel che già sapevo, quello è stato il momento in cui mi sono realmente resa conto di tutto. L’altra grande difficoltà per me è stato fare finta per l’intera estate che nulla stesse accadendo. Il lavoro che faccio è piuttosto esposto, implica un’immagine a pubblica, aspettative alte. Non è possibile eclissarsi, mostrarsi debole, non efficiente: a volte ho fatto fatica a reggere questa pressione.
Dalla maternità al mostrarsi sempre al meglio: sono queste le etichette che la società ancora impone alle donne?
L’equazione ancora spesso e volentieri afferma che se hai figli sei una donna al 100%, altrimenti no. E questa dimensione della maternità travalica e prende la maggior parte del tuo valore. “Hai figli?”, “Perché no?” sono domande alle quali di frequente mi sono trovata a dover rispondere e penso facciano parte di una serie di domande inappropriate, che però affondano un po’ più giù del solito “Come mai sei dimagrita?”, “ Ti vedo stanca”.
Alle giovani donne vorrei dire che non deve per forza essere un obiettivo primario essere madre, non ci si può realizzare personalmente attraverso un figlio. Credo prima vada trovata una strada personale – a volte professionale – che sia soddisfacente. Se tutta la realizzazione di sé ruota intorno alla maternità e la vita ha invece per te altri piani, cosa accade? Inoltre credo ci sia una narrazione patinata ed edulcorata della maternità che dovrebbe essere riscritta. Finché non verrà detta l’intera verità su questo tema, continueremo come società a coltivare desideri che si trasformano in scelte non consapevoli, che a loro volta determinano vite alle quali molte donne non sentono di appartenere. E poi…ci sono molti modi per essere madre.
Per esempio quali? Tu hai una storia a riguardo?
Sì, ho avuto il privilegio di partecipare alla crescita di un bambino, oggi un ragazzo meraviglioso. Samuel mi ha insegnato che i legami di sangue non sono più importanti di quelli di cuore. L’amore di un figlio per la mamma e il papà è pressoché scontato, gli altri rapporti sono tutti da costruire. Abbiamo condiviso la stessa casa per una decina d’anni, da quando ne aveva poco più di quattro, e anche se ora io non sto più con suo padre la sua camera a casa mia c’è sempre e ancora ci vediamo spesso. Sentirlo dire: “Ti voglio bene perché tu hai sempre pensato a cosa era bene per me” è il mio orgoglio più grande. In questo genere di rapporto bisogna spesso rimanere un passo indietro e garantire una presenza costante, senza quelle aspettative legate alla realizzazione di sé tipiche di un genitore. Non ho avuto la possibilità di partorire un figlio, ma non è vero che non sono stata mamma.
Il 2020 è stato per te decisamente denso. All’inizio del nuovo anno cosa porti con te?
La necessità di continuare a capire che senso abbia questa mia vita terrena. Troppo spesso ci si sabota, si fa finta di non capire quale sia la propria strada perché è più semplice vivere in una condizione superficiale. Nel vortice della quotidianità si tende a non pensare, a procedere col pilota automatico. Chiedersi invece “chi sono, come sto” è difficile, ma le domande impegnative, pur faticose, portano con sé un’evoluzione importante. Questo mi è stato molto chiaro in ospedale, vivendo una fase della vita fondata di nuovo sulle basi. Lì è importante respirare, dormire, riuscire a mangiare, riprendere a camminare. Questo ha fatto rimettere in fila le priorità, se ancora ce ne fosse stato bisogno, facendo emergere ciò che per molto tempo avevo dato per scontato.

Con il compagno Christian

Le domande fisse

Il libro che sta leggendo?
L’ultimo di Joël Dicker, ”L’enigma della camera 622”. Amo quest’autore, che ti tiene incollata alle pagine, dalla prima all’ultima.
Il suo numero preferito? 8.
Il suo colore preferito? Rosso.
Il piatto che ama di più?
Cotoletta e patate al forno, mi ricordano la nonna Gemma.
Il film del cuore?
“Vi presento Joe Black”, l’ho visto mille volte.
La squadra di calcio che tifa?
Milan, ma solo perché il ragazzino che mi piaceva alle elementari era un grande tifoso. Il medaglione che aveva fatto per uno scudetto ce l’ho ancora in un cassetto.
L’automobile preferita?
La T-Roc della Volkswagen. Sono testimonial per la Dorigoni e quest’estate mi hanno dato la versione cabrio. È vero che una macchina non dà la felicità, ma a volte sì!
Il viaggio che non è ancora riuscito a fare?
La Bolivia, amo il Sudamerica.
Ha animali domestici?
No.
Cantante, compositore o gruppo preferito?
Vasco Rossi, sempre.
Se non avesse fatto quello che ha fatto, cosa avrebbe voluto fare?
Girare il mondo, qualche pezzetto in più l’avrei visto volentieri.
La cosa che le fa più paura?
Perdere le persone a me care.
Un sogno notturno ricorrente?
Sì, che mi interrogano improvvisamente al liceo e non ho studiato. Passano gli anni, ma quella rimane una costante.

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Pubblicato da Susanna Caldonazzi

Laureata in comunicazione e iscritta all'Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige dal 2008, inizia la sua esperienza professionale nella redazione di Radio Dolomiti. Collabora con quotidiani, agenzie di stampa, giornali on line, scrive per la televisione e si dedica all'attività di ufficio stampa e comunicazione in ambito culturale. Attualmente è responsabile comunicazione e ufficio stampa di Oriente Occidente, collabora come ufficio stampa con alcune compagnie, oltre a continuare l'attività di giornalista free lance scrivendo per lo più di di cultura e spettacolo. Di cultura si mangia, ma il vero amore è la pasticceria.