Quando mi muovo in bici o a piedi mi capita di osservare con più attenzione quello che ci circonda. E vedo che ovunque, in qualunque spazio, anche il più impervio, ci sono tracce di presenza umana. È difficile trovare un paesaggio totalmente selvaggio, privo di segnali del passaggio umano, che sia presente o appartenga invece al passato. Anche nei luoghi di alta montagna non possiamo non notare tralicci, teleferiche, rifugi, tubi, generatori, sentieri, cestini, panchine… Siamo riusciti ad arrivare dappertutto, e certamente molte cose che abbiamo costruito sono assolutamente utili e necessarie. Ma abbiamo finito col colonizzare il paesaggio. Con il plasmarlo e piegarlo al nostro servizio, non sempre migliorandolo. In tanti casi, infatti, molte delle opere che abbiamo costruito ci hanno portato vantaggi e comodità, ma ci hanno fatto perdere il significato e la memoria dei luoghi precedenti, dando vita, spesso e volentieri, a luoghi di passaggio, funzionali, necessari, ma privi di storia. Il filosofo francese Marc Augé chiamava questi luoghi asettici, privi di identità, dove non esiste il senso di comunità: “non luoghi”. Posti come gli aeroporti, le sale d’aspetto, i parcheggi, i centri commerciali, gli svincoli, i franchising… Luoghi spesso simili in tutto il mondo. Ogni volta che passo in uno di questi “non luoghi”, mi chiedo cosa c’era prima, quale paesaggio quella costruzione abbia contribuito a coprire e cancellare per sempre. E penso che la pandemia ci abbia fatto capire che abbiamo bisogno di più luoghi e meno non luoghi. Di più autenticità e senso di comunità. Ma non è solo una questione estetica e romanticamente identitaria. La nostra opera di colonizzazione del suolo ha finito per avere risvolti anche molto preoccupanti dal punto di vista ambientale e della sicurezza. Nel mese di dicembre appena trascorso abbiamo assistito a precipitazioni molto intense: è scesa tantissima neve in montagna ed è caduta molta pioggia in pianura. E, come ogni volta accade, si sono registrati parecchi danni. Frane, smottamenti, alluvioni, valanghe. Tutto questo certo è dovuto all’intensità dei fenomeni metereologici, sempre più violenti e frequenti a causa del cambiamento climatico, ma anche alla nostra cattiva gestione del territorio, come i geologi stancamente continuano a ricordarci. L’Italia è il paese in cui si verificano la maggior parte delle frane in Europa. Questo anche perché rispetto ad altri paesi è anche molto più fragile per via della sua conformazione geologica, ma lo sono anche paesi come il Giappone, dove si verificano spesso episodi di terremoto, senza però provocare le catastrofi che avvengono da noi, nonostante siano anche di maggiore intensità. Il nostro problema è che siamo troppo ingordi di suolo. Pensate che nel nostro paese ogni giorno sparisce una superficie grande cinque volte piazza Duomo di Milano. Siamo finiti con l’avere sempre meno verde a disposizione per ciascun abitante. Anzi, ogni abitante, si vede corrispondere invece una superficie di cemento sempre maggiore. Per ogni bambino che nasce infatti ci sono 135 metri quadri di cemento, che diventeranno oltre 355 in media quando crescerà. Questo vale soprattutto per le aree costiere, come sappiamo iper sfruttate anche da un vergognoso abusivismo edilizio, ma in tutta la penisola abbiamo costruito troppo. Troppe case, seconde case, troppi canali, troppe strade, troppo cemento. Colonizzare la natura, costringerla entro limiti fisici è controproducente. Non possiamo fermare la sua forza, non possiamo pensare di controllarla ed imbrigliarla. Perché la natura è animata da un impulso vitale troppo potente, misterioso e grande, che noi non sappiamo comprendere e circoscrivere nei limiti umani. Ma lo abbiamo fatto e purtroppo, senza capirlo, lo continuiamo a fare, come se ciò non ci riguardasse. La natura è la nostra casa comune, il nostro luogo, per eccellenza. Ricordiamolo.
Stiamo colonizzando il paesaggio, ma il paesaggio non è infinito
Silvia Tarter Scritto il
Pubblicato da Silvia Tarter
Bibliofila, montanara, amante della natura, sono nata tra le dolci colline avisiane, in un mondo profumato di vino rosso. La vita mi ha infine portata a Milano, dove ogni giorno riverso la mia passione di letterata senza speranza ai ragazzi di una scuola professionale, costretti a sopportare i miei voli pindarici sulla poesia e le mie messe in scena storiche dei personaggi del Risorgimento e quant'altro. Appena posso però, mi perdo in lunghissimi girovagare in bicicletta tra le abbazie e i campi silenziosi del Parco Agricolo Sud, o mi rifugio sulle mie montagne per qualche bella salita in vetta. Perché la vista più bella, come diceva Walter Bonatti, arriva dopo la salita più difficile. Mostra altri articoli