Con 13 milioni di euro incassati in tre settimane (al momento di andare in stampa i milioni sono diventati più di 20), “C’è ancora domani” si rivela il film italiano più visto dell’anno. Ma come si spiega questo successo? Siamo di fronte a un capolavoro? Non proprio. Siamo di fronte, di fatto, solo ad una pellicola italiana che finalmente esce da quella dicotomia film di nicchia o film ultra commerciale (e spesso scadente) a cui gli ultimi decenni ci hanno abituato. Paola Cortellesi, al suo esordio alla regia, capisce che il cinema nostrano ha bisogno di lungometraggi che siano godibili ma allo stesso tempo, nel loro complesso, frutto di ragionamento, studiati e costruiti per andare oltre la battuta da cinepanettone anni ‘90. Capisce che il pubblico italiano ha bisogno di leggerezza, di risate che non implichino lo scadere nel volgare, e confeziona un film che sta a cavallo tra la commedia e il dramma, che non cede mai troppo né all’una né all’altro.
Sceglie una storia che è popolare, popolarissima, pensata per far breccia dentro un sentire comune a qualsiasi spettatore, a prescindere dal genere e dall’età, e costruita sul terreno di un passato condiviso da molte delle nostre nonne e da molte delle donne del Dopoguerra: una storia familiare, di gente semplice che si arrabatta per tirare avanti, che cerca di star bene anche se ha poco; una storia di violenza di genere ancora inconsapevole e frutto della consuetudine, non ancora letta alla luce del femminismo di oggi. Sceglie personaggi italiani, italianissimi, al punto da essere degni pronipoti della commedia all’italiana, eppure contaminati da quel pizzico di modernità sufficiente a non farli sembrare caricature. Sceglie una protagonista, Delia (interpretata dalla stessa Cortellesi), che non è un’eroina femminista da cinema dei nostri anni ‘20, ma una donna alla ricerca di una possibilità, per sé, per la figlia, e inconsciamente per tutte le donne del suo tempo e di quello a seguire. Unisce, insomma, tutta una serie di elementi che funzionano, che sono adatti a un pubblico vasto. E li condisce con qualche delicatezza, con qualche attenzione: dalla scelta del bianco e nero per richiamare il neorealismo, alla trovata di non mostrare mai direttamente la violenza fisica subita da Delia, facendone anzi una sorta di danza, di “rito” a tempo di musica. L’idea, per un cinema che torni a riempire le sale, oggi che più che mai ce n’è bisogno, è buona, l’esecuzione, tuttavia, non sempre precisa: Paola Cortellesi firma anche la sceneggiatura, punto più critico dell’intera struttura filmica, con quei dialoghi spesso troppo didascalici, messi lì per fornire al pubblico spiegazioni (ma se i personaggi sanno le cose, perché dovrebbero dirle, se non al fine di ridurre a zero lo sforzo intellettuale di chi guarda?), e con qualche trovata davvero troppo inverosimile e naif, come l’intervento del soldato afroamericano.
Il bianconero nella contemporaneità
L’uso del bianco e nero come tratto associativo tra un film della nostra contemporaneità e dell’epoca a cui esso – chiaramente – rimanda non è una novità inventata da Paola Cortellesi per il suo debutto. Espediente ormai classico del cinema moderno, lo ritroviamo in numerosi esempi, da “Ed Wood” di Tim Burton (che girava lui stesso in b&n), a “Good Night, and Good Luck” di George Clooney (per citare gli anni ‘50), a “Intrigo a Berlino” di Steven Soderbergh. Lungometraggio del 2006, costruito come un noir anni ‘40, questo film non proprio riuscito del regista statunitense riprende dal genere a cui si ispira non solo la trama, ma tutti gli aspetti stilistici. Oltre la fotografia, dunque, il formato, la colonna sonora, i dialoghi spesso enfatici, i costumi, per un risultato che lo ha fatto definire un clone di “Casablanca” e/o de “Il terzo uomo”. Nel bene o nel male.