Tra decadenza e splendore

Nella foto Celeste Dalla Porta, Dario Aita e Daniele Rienzo. Foto di Gianni Fiorito

Maradona, Napoli, Fellini. Sono questi, ormai lo abbiamo capito da tempo, i pilastri della vita – e del cinema – di Paolo Sorrentino. Dopo È stata la mano di Dio, in cui ci aveva raccontato la sua città attraverso una storia personalissima, autobiografica, di fuga dalla città natale per cercare fortuna, ma di radicati semi di quelle origini partenopee nel suo essere, stavolta, in Parthenope, il regista ce la mostra tutta, la città, in tutto il suo splendore e in tutto il suo decadimento, senza mezzi termini. Nel lungometraggio presentato allo scorso Festival di Cannes, presentato in anteprima in alcune sale nella proiezione di mezzanotte, e finalmente al cinema per tutti, la vicenda segue di fatto la vita di una giovane donna, Parthenope appunto (interpretata da Celeste Dalla Porta, al suo esordio), partorita nel 1950 nell’acqua di una piscina e, da lì in poi, destinata ad essere indissolubilmente legata all’acqua e al mare (su cui si chiuderà, del resto, anche l’ultima inquadratura). Ed è attraverso di lei, il suo vissuto, il suo vivere e il suo movimento fisico nella città, che Sorrentino stesso ci racconta di Napoli: come se gli occhi della giovane fossero lenti che traspongono e mediano lo sguardo del regista. Il coming of age di Parthenope è quindi la base, la narrazione della sua vita, la giustificazione su cui costruire tutto il resto. Si passa così dai primi esami universitari in antropologia con il professor Marotta (Silvio Orlando), che afferma a più riprese di non sapere davvero cosa sia la sua materia di studio ma poi confessa che “l’antropologia è vedere”, donando a noi spettatori la chiave di lettura di tutto: è vedendo Napoli che la conosceremo. E ci si muove tra le letture, l’incontro con John Cheever (Gary Oldman) e l’intellighenzia cittadina, per spostarsi poi tra la malinconia della fine della giovinezza con un ballo vista Faraglioni, fino a lasciarsi sedurre per un momento dal mondo del cinema. Si passeggia nei bassi popolati dalle prostitute e dal degrado, si affianca più o meno consapevolmente la Camorra, ci si imbatte nel miracolo di S. Gennaro e nella spiritualità un po’ fessacchiotta e un po’ imprenditoriale di Napoli, si festeggia, ancora, uno scudetto… Napoli, insomma, la si vede tutta. Perché c’è tutta, senza edulcorazioni e senza mistificazioni. Complessa, controversa, chiassosa, esagerata; sincera, commovente, luminosa, piena di speranza, la Napoli di Parthenope – e quindi di Sorrentino – è mille anime che attraversano il tempo (dal boom al 2023), ed è evoluzione, caos, vita. E Fellini? Fellini ritorna, come sempre, nella narrazione, nell’immaginario, nella scelta della costruzione dell’immagine, nei volti, nelle situazioni (una su tutte l’agente delle dive Flora Malva interpretata da Isabella Ferrari, col viso velato perché “un chirurgo brasiliano l’ha rovinata”).

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.