
Sono passati 30 anni da quell’aprile del 1994 in cui iniziò il genocidio del Ruanda, che portò alla morte un milione di persone e aprì la strada ad un conflitto altrettanto devastante del vicino Congo/Zaire. Un tempo sufficientemente lungo per chiedersi cosa sia sedimentato nella memoria di chi assistette, anche se solo da lontano, a quelle vicende, e nella coscienza delle giovani generazioni. All’epoca si parlò di odio “etnico”: non erano state forse le milizie paramilitari Hutu, i famigerati Interhamwe, ad uccidere i membri dell’etnia rivale, i Tutsi, pur non disdegnando di abbattere, prevalentemente a colpi di machete, anche Hutu “dissenzienti”? In realtà, naturalmente, il genocidio rappresentò il punto di arrivo di rivalità sedimentatesi nel passato di queste terre, amplificate dal colonialismo belga, che le sfruttò per i propri fini, secondo la logica ben nota del divide et impera.
Da ultimo ebbe un ruolo significativo anche la rivalità fra due paesi altrimenti alleati, entrambi membri della Nato, Francia e Stati Uniti. Non stiamo dicendo che furono loro a volere il genocidio, naturalmente. Ma è un fatto che, prima di quegli eventi, il Ruanda era un paese francofono, e che i francesi fino alla fine sostennero il governo della famiglia Habyarimana, quindi la fazione Hutu. Specularmente, dopo il genocidio, e la successiva vittoria dei Tutsi di Paul Kagame (che aveva studiato nelle accademie militari americane), il Ruanda è diventato un paese anglofono.
Questi eventi vengono ricordati anche in un libro (pubblicato da Edizioni del Faro), scritto da Giuliano Rizzi, ingegnere, sociologo, funzionario provinciale, ma in passato anche cooperante in Uganda e nella RD Congo (che venne investita in pieno dall’onda d’urto generata dal genocidio ruandese). “Ho solo obbedito alla mia coscienza”, questo il titolo della pubblicazione, racconta la storia di Pierantonio Costa, imprenditore italiano e console del nostro Paese in Ruanda. Costa, come tante figure del genere, è un uomo schivo. Rizzi lo ha incontrato a Kigali, la capitale del Ruanda, nel 2014. Voleva conoscere di persona un uomo che si è adoperato in quelle settimane terribili per salvare delle vite, di suoi concittadini (gli italiani che risiedevano in Ruanda all’epoca erano 193) e di altri innocenti, in tutto forse 2000 persone, ma il loro numero non è certo. E si è trovato di fronte un uomo ancora meno incline all’autocelebrazione di quanto non avesse immaginato.
“Perché l’ho fatto? – dice Costa. Prima cosa, perché ero console e compito del console è aiutare e proteggere i cittadini italiani (…). Seconda cosa: io in Ruanda avevo tutto il mio capitale e tutta la mia vita e dunque ho cercato di vedere come potevo fare per salvare le mie cose (…). E poi, con lo scorrere di quei giorni mi sono reso conto che in effetti potevo fare qualcosa”.
Capite di che persona parliamo? Costa non si atteggia ad eroe, non usa parole roboanti, non pronuncia sentenze. Dice che “le persone agiscono in base a come sono state educate”, e ricorda come i suoi genitori, durante il secondo conflitto mondiale, a Venezia, avessero salvato dei soldati italiani che i tedeschi stavano per passare per le armi. Non dice che aiutare un Tutsi, in quei giorni, metterlo su una camionetta, trovargli un posto su un aereo, poteva essere un azzardo da pagare con la vita.
Personalmente ho sempre pensato come Bertolt Brecht: “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”. Ma se degli eroi esistono, penso che assomiglino un po’ a Costa.