Tutti i crimini del futuro

David Cronenberg. Amore o odio. Mai conosciuto nessuno a cui piacesse solo un po’. Torna in questi giorni in sala con “Crimes of the Future” (stesso titolo del suo film del 1970, ma non un remake), dopo un’assenza di ben otto anni. Torna con un thriller post-apocalittico che, benché nella sua trama più classicamente noir (il doppio gioco, l’incastrare i cattivi) poco appassioni e poco incolli allo schermo, regala allo spettatore una visione inedita, interessante e un po’ inquietante sul futuro.
Da Cannes 75 a più riprese definito una sorta di opera summa del suo lavoro, un “Cronenberg che fa Cronenberg”, “Crimes of the Future” porta effettivamente agli estremi alcuni dei caratteri tipici del cinema del regista canadese: la centralità del corpo, il post-umano e il rapporto tra uomo e tecnologia. In un mondo in cui il dolore fisico non esiste più, infatti, l’umanità ha sviluppato strane forme evolutive, tra cui la capacità di auto-generare organi interni e quella di trarre nutrimento dalla plastica. È tutta qui, allora, la forza del film: un mondo che estremizza i difetti congeniti della nostra attualità. Se la tecnologia, l’egoismo, la ricerca del successo ad ogni costo, ci hanno reso meno empatici, per Cronenberg la parabola, chiaramente discendente, non può che condurre all’assenza totale di sofferenza, di male fisico. Il dolore diventa così un gioco erotico; provocarsi reciprocamente ferite un vincolo di piacere, o ancora e spesso, un gesto artistico – estremizzando cose di fatto viste nella seconda metà del Novecento, in quella che è definita arte performativa. Un mondo in cui i relitti delle grandi navi fanno da sfondo costante e in cui la presenza di plastica è ormai sfuggita di mano all’umanità, fino al punto da farne cibo, fonte di nutrimento. Una realtà futura distopica, e di conseguenza un cinema, in cui al centro di tutto sta il corpo. Pure sempre inevitabilmente affiancato a tecnologie intelligentissime, dai gusci notturni rigenerativi, agli strumenti operatori avveniristici che permettono di fatto “a chiunque di essere un chirurgo”. Un corpo che è sempre stato cinema e che, in extremis, torna ad essere emozione, con una splendida citazione all’estasi de “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer.

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.