“Ci sono alcuni ambiti della cultura e aspetti sociali su cui la gente si arroga il diritto di giudicare e dare consigli con grande impeto. C’è lo sport, dove tutti gli italiani, anche quelli non sportivi, sono allenatori e commissari tecnici. C’è l’andare in montagna: basta una passeggiata in un bosco o tra qualche parete rocciosa in estrema sicurezza oppure aggrapparsi a qualche metro di cordino per trasformare una persona in novello Reinhold Messner, e attorno alle tavolate di rifugi e gasthof o nei deschi familiari con gli amici, a voce alta, si sprecano consigli, si vantano voli fantastici su pareti immaginarie, si stroncano le tecniche altrui. Il tutto dietro a sfavillanti abbigliamenti da montagna, dal berretto agli scarponi, tutto rigorosamente firmato. E sono gli stessi che se la domenica è prevista qualche goccia di pioggia non si muovono di casa nemmeno per passeggiare. Eppure il gore-tex dovrebbe essere una garanzia. Forse è meglio così: le montagne sono più libere e meno affollate. E poi capita di vedere in montagna ancora gente con i pantaloni di velluto, magari il sarner e un bel maglione di lana, quello sì veramente caldo.
Un altro settore in cui tutti dicono la loro è l’arte. Non tanto su teatro, musica, balletto o opera lirica quanto sulla somma di pittura, scultura, incisione, ecc. Lì ogni pudore svanisce. Eppure nessuno oserebbe discutere, criticare o elargire consigli in ambiti come l’informatica, la medicina, la statistica, l’astronomia, la zoologia, ecc.: lì la consapevolezza della propria ignoranza (intesa come inconsapevolezza o incompetenza, condizione determinata dalla mancanza di istruzione o di educazione) costringe le persone al silenzio.
L’arte è uno strumento di conoscenza che permette di liberare la nostra creatività, che fa bene alla salute – una ricerca recente riferisce che chi ama l’arte ha più possibilità di riprendersi dall’ictus –, che migliora l’umore, ecc. ma da questo ad avere il diritto di giudicare e valutare ce ne passa. Siamo un popolo di santi, poeti, navigatori e artisti. Ma nell’assumere tali comportamenti si abbassa notevolmente il grado culturale generale e si inficia la portata e il valore dell’opera stessa. È vero che in questi ultimi vent’anni sono (apparentemente) scomparsi i valori che soggiacevano alla produzione artistica del passato recente. Infatti è difficile leggere, anche sulla stampa specializzata, qualche critico o storico dell’arte che stronchi un’opera con cognizione di causa. Non ci sono più – cioè sono vivi ma esclusi dal mercato artistico – personaggi come Maurizio Calvesi, Germano Celant, Renato Barilli, il compianto Arrigo Lora Totino, Lea Vergine, Filiberto Menna, ecc., critici che, nelle loro recensioni o nell’organizzazione di eventi e mostre, indicavano la strada – o eventualmente le strade – da seguire e valorizzare per un’arte fulcro, motore e perno della creatività nata dalla cronaca quotidiana, arte di valori, arte progettuale, arte che aveva il coraggio, anche nelle proposizioni più contestative e provocatorie, di affondare le radici nel proprio passato e nel presente affinché il futuro si affacciasse nella nostra vita in modo armonico e poetico.
Questo “parlar a vanvera” (“fanfullate” direbbe Fosco Maraini) si legge anche sui giornali e sui quotidiani. Tutti parlano d’arte, mettendo sullo stesso piano l’opera artistica con la A maiuscola con l’opera scaturita da un passatempo, da un approccio terapeutico all’arte, da un qualche cosa d’altro che non ha niente a che fare con la costruzione progettuale di una percezione dell’universo (piccolo o grande esso sia).
Mettere tutto in un gran calderone significa annullare, appiattire, conformare ogni stimolo innovatore, ogni linguaggio serio e inedito, vuol dire cancellare i gradini di una scala infinita che portano verso il cambiamento, vuol dire annebbiare lo specchio dove l’individuo e lo spettatore si possono riflettere per rimeditare se stessi e la percezione del mondo che li circonda. La banalità nasce proprio da questo approccio all’arte. Viviamo in un’epoca “banale” perché qualcuno, come in molti altri campi, non ha il coraggio di scegliere, di decidere cosa valga la pena di innalzare all’attenzione del pubblico motivando la scelta e cosa invece è meglio che cada nel dimenticatoio. Gettare nel calderone dove le voci impazzano senza senso vuol dire distruggere una corretta visione della realtà. Allora l’arte non “provoca” più, non sciocca più oppure non fa più riflettere e ragionare, non cattura più lo sguardo affinché si ridiscuta l’esistente. Dedicare lo stesso spazio su un quotidiano o su una rivista ad una vera opera d’arte o ad una scaturita dalla noia e dallo svago o dal desiderio narcisistico di essere ammirato dagli amici vuol dire appiattire tutto, svuotare il potenziale “rivoluzionario” dell’arte.
Un consiglio mi sento da dare a chi sproloquia sull’arte: andate, girate, visitate, soprattutto le fiere artistiche perché lì c’è il polso del mercato, di quel mercato intelligente e sapiente che ha il coraggio, anche in tempo di crisi, di sostenere, valorizzare e pubblicizzare la vera arte.