Un curriculum per il Concilio

Sebastiano Ricci, Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento. Olio su tela, 1687-1688, Piacenza, Musei Civici

Presso un noto antiquario di Riva del Garda è visibile da qualche mese il ritratto di un prelato del Cinquecento, tale Romolo Valenti da Trevi. Chi fosse questo religioso ce lo racconta nel dettaglio il Dizionario Biografico degli Italiani: nato nel 1522, fu vicario della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, poi governatore di varie città dello Stato Pontificio e infine vescovo di Conversano in Terra di Bari. Nel dipinto si presenta davanti alla posterità in mozzetta e rocchetto, con un libro in mano recante sul piatto lo stemma della sua famiglia: non è sicuro che sia un libro di preghiera. Sul dipinto c’è poco altro da dire sul piano strettamente artistico. Lo stile ricorda i modi di Scipione Pulzone da Gaeta, vale a dire del più accreditato ritrattista attivo sulla scena romana nell’età della Controriforma. Tuttavia l’interesse del ritratto risiede soprattutto nella scritta che corre sopra la testa imberrettata dell’effigiato. Essa ci fornisce le informazioni essenziali sulla sua identità, ossia nome, cognome, grado ecclesiastico e la seguente qualifica: “VNVS EX PATRIBVS SACRI CONCILII TRIDENTINI”. Uno dei Padri del Sacro Concilio Tridentino.

Facendo una rapida ricerca bibliografica si scopre che la stessa definizione è presente anche nell’epigrafe funeraria incisa sulla sua tomba, tuttora visibile nella chiesa della Madonna delle Lagrime a Trevi, sua città natale. Essa ci rammenta che il defunto “sostenne con la parola doversi ripristinare l’obbligo della residenza già da molto tempo trascurato e con l’esempio l’insegnò per 17 anni”: in altre parole, in ottemperanza ai decreti conciliari, evitò di lasciare la sede vescovile di Conversano per recarsi in altri e più ameni luoghi, magari allo scopo di accumulare prebende, e si occupò esclusivamente del suo gregge. Il minimo, tutto sommato.

Questa modalità di presentazione è una formula non infrequente nelle memorie dei prelati che furono presenti al concilio. Infatti ricorre in diversi monumenti funerari e in qualche altro ritratto già noto. Ne è un esempio il cenotafio di Cornelio Musso addossato alla controfacciata del bellissimo duomo di Bitonto: si tratta di un manufatto tardobarocco e dunque posteriore di due secoli alla morte del frate piacentino, che tenne l’orazione inaugurale del concilio e che fu poi promosso alla diocesi pugliese. Sotto la sua effigie marmorea un cartiglio sciorina in buon latino tutto il suo curriculum vitae, con la partecipazione al concilio – “INTER S. CONCILII TRIDENTINI PATRES…” – ben evidenziata tra i primi punti.

Idem nel duomo di Arezzo, dove chi entra da man destra si trova immediatamente al cospetto di un simpatico cardinale, il cui busto in marmo è collocato giusto accanto alla bussola dell’ingresso, in una nicchia circondata da una cornice architettonica di gusto manierista. Una faccia larga e affabile, la barba fluente e ben curata, il naso michelangiolesco, vale a dire molto schiacciato. La lunga epigrafe sottostante ne declina le generalità: Stefano Bonucci, frate servita, generale del suo ordine, vescovo di Arezzo e cardinale di Santa Romana Chiesa sotto Sisto V, morto nel 1589 all’età di 67 anni. Ma già alla seconda riga “celeberrimo teologo al sacro sinodo di Trento”. Gli storici locali ne ricordano le umili origini e lo giudicano un vescovo degno del ruolo e di austeri costumi, dunque perfettamente coerente con i conchiusi tridentini.

Se la qualifica di “padre conciliare” è ovvia per i grandi protagonisti dell’assise, quali furono il Bonucci, lo stesso Musso o il cardinale Girolamo Seripando – vedi la tomba di quest’ultimo in Sant’Agostino a Roma – è curioso ritrovarla anche in relazione a figure del tutto minori, come il nostro Valenti o come tale Jacopo Guidi da Volterra, “vescovo di Penna, e d’Atri, letterato insigne et uno dei padri del S. Concilio di Trento”, secondo quanto si legge in esergo a un suo ritratto inciso nel Settecento.

Se ne deduce che l’aver partecipato al concilio, anche per un breve periodo, fu considerato, a cose fatte, un titolo di merito di assoluto rilievo, da evidenziare il più possibile in tutte le sedi e anche nell’ultima dimora, indipendentemente dal ruolo effettivamente esercitato nel sinodo.

Vedi ancora il caso di un altro prelato toscano, Braccio Martelli, cameriere segreto di Clemente VII e vescovo di Fiesole a 29 anni: una stampa del 1769 “tratta da un quadro in tela” lo ricorda immancabilmente come “uno dei padri del sacrosanto concilio di Trento”, benché avesse partecipato solo alle prime sessioni, per poi starsene in santa pace nella sua nuova sede episcopale di Lecce, dove fu trasferito nel 1552.

A generare questa prassi commemorativa dovette essere un impulso assai comune, ossia quello di far sapere agli altri, inclusi i posteri, che si è stati protagonisti di un avvenimento di portata storica, sia pure rimanendo in disparte o nelle retrovie. La soddisfazione di poter dire “io c’ero”, in buona sostanza. Sarei però curioso di sapere quanti peones del Sacro Sinodo, a distanza di anni dalla sua conclusione, fecero pesare la loro esperienza tridentina nei più diversi contesti, magari per zittire un proprio collega su una capziosa questione dottrinaria o per scavalcarlo nella corsa a un canonicato. Tanti, se si considera che gli atti conciliari, per ordine di Pio IV, furono immediatamente secretati e i partecipanti all’assise, finché vissero, poterono raccontare qualunque cosa su quanto si era detto e sentito a Trento senza tema di smentita.

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Pubblicato da Roberto Pancheri

È nato a Cles nel 1972 e vive felicemente a Trento. Si è laureato in Lettere a Padova, dove si è specializzato in storia dell’arte. Dopo il dottorato di ricerca, che ha dedicato al pittore Giovanni Battista Lampi, ha lavorato per alcuni anni da “libero battitore” e curatore indipendente, collaborando con numerose istituzioni museali e riviste scientifiche. Si è cimentato anche con il romanzo storico e con il racconto breve. È infine approdato, per concorso, alla Soprintendenza per i beni culturali di Trento, dove si occupa di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. La carta stampata e la divulgazione sono forme di comunicazione alle quali non intende rinunciare, mentre è cocciutamente refrattario all’uso dei social media.